Gli uffici di Google, a Londra (Dylan Nolte/Unsplash)
Gli uffici di Google, a Londra (Dylan Nolte/Unsplash)

Lavorare non basta

Avere un impiego non è più sufficiente per vivere dignitosamente. Gli stipendi sono bassi, proliferano i contratti a termine e si allarga l'esercito degli autonomi, alla mercè di un sistema che non offre alcun sostegno

Andrea Dotti

Andrea DottiGiornalista

13 luglio 2022

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"Tanti, troppi giovani sono costretti in lavori precari e malpagati, quando non confinati in periferie esistenziali". Con queste parole, il 3 febbraio scorso, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inaugurato il suo secondo mandato. "È necessario assumere la lotta alle diseguaglianze e alle povertà come asse portante delle politiche pubbliche", ha aggiunto il capo dello Stato, che durante il suo discorso è stato interrotto diverse volte dagli scroscianti applausi del parlamento. Ma se lavorare non è più sufficiente a garantire una vita dignitosa, la politica non può limitarsi al ruolo di spettatore plaudente.

Lo stipendio non è più sufficiente

Da oltre trent’anni le retribuzioni sono ferme al palo, immobili in una stagnazione che sembra non avere fine

Da oltre trent’anni le retribuzioni sono ferme al palo, immobili in una stagnazione che sembra non avere fine. I lavoratori sono sempre più soli e precari. Mentre il mondo datoriale gioca al ribasso in termini di salari, le politiche pubbliche, di regolamentazione e ridistribuzione, restano insufficienti. 

Pochi giorni prima del discorso di Mattarella, il ministero del Lavoro ha presentato uno studio sconfortante: il 13,2 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici vive in condizioni di povertà. Il fenomeno riguarderebbe 3 milioni di persone che vivono con meno di 12 mila euro l’anno. Lo studio condotto dal ministero, in questo senso, prende come riferimento i dati Eu-Silc del periodo pre-pandemico. Tutto lascia intuire che la crisi sanitaria abbia peggiorato la situazione. E una cosa è certa: il lavoro non è più una garanzia di sicurezza economica. Avere uno stipendio non è sufficiente.

La punta dell’iceberg

La povertà lavorativa colpisce di più le famiglie monoreddito, chi ha contratti part-time, i precari e i lavoratori autonomi. Ma è un dato esaustivo? Gli analisti europei fanno riferimento a un indicatore: il cosiddetto in-work poverty. Si tratta di una stima calcolata sul reddito familiare dei lavoratori occupati per almeno sette mesi nel corso di un anno. In questo contesto, un lavoratore è considerato povero se il reddito del nucleo familiare risulta inferiore al 60 per cento della mediana del Paese di riferimento.

In Italia il 13,2 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici vive in condizioni di povertà. Ci sono 3 milioni di persone che vivono con meno di 12 mila euro l’anno

Avere uno standard europeo condiviso permette di analizzare il fenomeno in modo comparativo e di mettere i dati in prospettiva. Tuttavia, questo approccio rischia di sottostimare le cifre, escludendo dal calcolo tutti i percettori di bassi salari, ma il cui reddito viene integrato da quello del coniuge. Allo stesso tempo, nasconde quella fetta di lavoratori che, loro malgrado, sono occupati per meno di sette mesi su dodici nel corso dell’anno. Non è questione di lana caprina: è importante capire questa distinzione perché può influire sulle decisioni politiche e sulle riforme future.

Facciamo qualche esempio. Per l’indicatore, una lavoratrice con un reddito da lavoro di 10 mila euro non viene considerata in povertà lavorativa se il coniuge supera i 30 mila euro. E secondo questo calcolo, le lavoratrici sarebbero meno esposte a povertà. Un dato che si scontra con quello del salary gender gap, che è del 17 per cento nel settore privato, secondo l’Istat.

Per le donne il rischio di povertà lavorativa è del 27,8 per cento, 11 punti in più rispetto agli uomini

"Ciò si verifica perché all’interno dello stesso nucleo familiare, spesso, le donne sono il secondo percettore di reddito, il coniuge che guadagna di meno. Sono anche le più esposte a contratti precari e meno tutelate", conferma Silvia Ciucciovino, giurista e tra le curatrici del rapporto. Ma se mettiamo da parte il nucleo familiare e analizziamo il dato dal punto di vista individuale, vediamo che il rischio di povertà lavorativa è del 27,8 per cento per le donne: 11 punti percentuali in più rispetto agli uomini. Uno strumento di analisi, dunque, che rischia di mostrare la punta e nascondere l’iceberg.

Non è colpa solo della pandemia

Dal 1990 al 2020 le retribuzioni sono scese quasi del 3%, mentre nel resto d’Europa sono aumentate. In Italia ci sono 4,5 milioni di lavoratori con bassi salari: meno di mille euro netti al mese

E se provassimo a concentrarci sulle retribuzioni individuali? Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, a causa della pandemia da Covid la massa salariale (la somma di tutti i salari erogati) è diminuita del 6,5 per cento in tutta Europa. Ciò è dovuto a una diminuzione delle ore totali lavorate. Allo stesso tempo, però, gli interventi pubblici sono stati in grado di dimezzare l’impatto, inserendo liquidità nel mercato del lavoro, sotto forma di ammortizzatori sociali.

Ma è stata solo la pandemia a mettere in crisi i redditi dei lavoratori? La risposta è no. In Italia c’è un problema strutturale che riguarda le retribuzioni. Ecco perché gli applausi del parlamento al discorso di Mattarella hanno ancora di più il sapore della beffa. Allargando lo sguardo agli ultimi 30 anni, infatti, vediamo che il nostro è l’unico dei paesi Ocse che ha visto una contrazione dei salari. Dal 1990 al 2020 le retribuzioni sono scese quasi del 3 per cento, mentre nel resto d’Europa sono aumentate. I dati Inps ci dicono che in Italia ci sono 4,5 milioni di lavoratori con bassi salari: meno di mille euro netti al mese. Un terzo dei giovani sotto i 35 anni e un quarto delle donne vive in questa condizione.

La crisi sanitaria è solo il tappeto sotto al quale nascondere una polvere che permane da oltre trent’anni, con il Paese che non è stato in grado di dare risposte concrete al processo di deindustrializzazione dell’economia, puntando piuttosto sul basso costo del lavoro. Il nostro tessuto economico è formato da imprese di medie e piccole dimensioni, a volte piccolissime: per l’Inps il 33 per cento delle aziende non supera i dieci dipendenti. Come sottolineato da Oxfam, si tratta di organizzazioni poco propense a investire in innovazione e digitalizzazione. Una scarsa forza di propulsione che spinge al sottoutilizzo della forza lavoro e pochi investimenti nel capitale umano, un ambiente perfetto per l’atomizzazione del lavoro, la proliferazione del precariato e forti diseguaglianze retributive.

Mal pagati e con poche tutele, voci di lavoratori "indispensabili"

La lotta per il salario minimo

"Di recente è ripresa la discussione sul salario minimo garantito. Sono stati presentati emendamenti per eliminare una soglia sotto la quale, secondo noi, nessun contratto deve mai scendere. Rischia di essere l’ennesimo pannicello caldo che non serve a nessuno"Nunzia Catalfo - Ex ministro del Lavoro

Anche per questi motivi si è moltiplicato il numero di contratti collettivi nazionali, molti dei quali firmati da sigle sindacali e datoriali poco, o per nulla, rappresentative della categoria. Questi contratti seguono logiche al ribasso, in termini retributivi, perseguendo obiettivi opportunistici. Una giungla normativa: non esiste, infatti, una legge che permetta di individuare contratti collettivi standard, né tanto meno un salario minimo legale. Contemporaneamente, l’intervento pubblico in termini redistributivi è piuttosto carente: solamente il 50 per cento dei lavoratori poveri riesce ad accedere a misure integrative del reddito.

Eppure, un disegno di legge ci sarebbe e porta la firma di Nunzia Catalfo, vicepresidente al Senato per il Movimento 5 Stelle e ministra del Lavoro durante il secondo governo presieduto da Giuseppe Conte. Il ddl prevede che vengano individuati contratti collettivi definiti leader, cioè firmati dalle principali organizzazioni sindacali e datoriali, ai quali ancorare i tabellari minimi retributivi. E se questo non dovesse bastare, viene fissata una soglia minima di 9 euro l’ora. Un passaggio imprescindibile per la proponente: "Un importo, che potremmo definire 'di dignità', che entra in gioco se la retribuzione minima prevista da un Ccnl è troppo bassa". 

Attualmente la proposta è ferma in commissione Lavoro al Senato, bloccata da chi non vuole fissare la soglia minima dei nove euro orari. "Di recente è ripresa la discussione – spiega Catalfo – sono stati presentati degli emendamenti che intendono modificarla in peggio, eliminano la fissazione di una soglia sotto la quale, secondo noi, nessun contratto deve mai scendere. Dobbiamo dirlo chiaramente, una legge sul salario minimo senza tale parametro rischia di essere l’ennesimo pannicello caldo che non serve a nessuno. Il percorso è stato fin qui difficoltoso perché, purtroppo, ci sono resistenze trasversali, alcune delle quali difficilmente comprensibili".

Senza una legge, l’unico baluardo normativo sembrerebbe la nostra Costituzione, che nell’articolo 36 fa riferimento al diritto a una giusta e proporzionata retribuzione. Troppo poco, senza il supporto di una legislazione che la sostiene. Un diritto, inoltre, a cui sembrano essere esclusi i lavoratori autonomi, a rischio povertà per il 22 per cento.

La galassia del lavoro autonomo è ampia e molto frammentata. Ci sono freelance, artigiani, consulenti, cig-workers e anche tutti coloro che operano in regime di partita iva, pur avendo un effettivo rapporto di dipendenza. Su di loro viene spesso scaricato il rischio di impresa. La loro precarietà dipende dalle fluttuazioni del mercato e l’assenza di ammortizzatori sociali destinati a loro li rende ancora più vulnerabili.

Non è questione di parità: il gender gap fa male all'economia

Un equilibrio sempre più sottile

Oltre alla questione salariale, la povertà lavorativa è strettamente collegata alle tipologie di rapporti di lavoro: contratto, ore lavorate durante la settimana e mesi di impiego durante l’anno. Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila è cresciuta la convinzione che per far fronte alla crisi occupazionale, causata in parte dai processi di deindustrializzazione, fosse necessario creare un mercato del lavoro più flessibile. Tale prospettiva prevedeva, oltre a contratti più fluidi, un ampio uso di interventi pubblici e il potenziamento degli ammortizzatori sociali. Secondo questo approccio, la flessibilità avrebbe dato nuova linfa all’occupazione, mentre la sicurezza dei lavoratori, nei periodi tra un impiego e l’altro, sarebbe stata garantita da una forte rete di welfare pubblico. In una parola: la flexsecurity.

Le cose sono andate diversamente. Dal punto di vista della flessibilità lavorativa, il nuovo corso ha mantenuto le promesse, ma il nostro Paese si è dimostrato carente dal punto di vista dell’investimento pubblico. Il risultato è stata una proliferazione dei contratti a termine e di ammortizzatori sociali carenti.

Sfruttamento e incidenti: questo non è un bel lavoro

Le misure di sostegno sono poca roba

L’indennità di disoccupazione (Naspi), ad esempio, viene erogata in modo percentuale e calcolata su stipendi già bassi. Anche la durata è vincolata ai mesi lavorati, mentre l’accesso è circoscritto solo nei casi di licenziamento da parte del datore o termine del contatto. Paletti che spesso spingono i lavoratori ad accettare il ricatto della bassa retribuzione, in assenza di una reale alternativa.

Per quanto concerne i contratti a termine, stanno diventando la norma. Secondo una rilevazione Inps, un lavoratore su quattro ha un contratto a tempo determinato: prevalentemente giovani impiegati nel terziario. Il rischio povertà, per questi lavoratori, è più alto. A minori tutele, corrispondono anche stipendi più bassi: quasi il 30 per cento in meno rispetto ai loro colleghi con contratti più stabili (Istat). Diminuiscono, inoltre, le possibilità di migliorare la loro condizione salariale nel corso del tempo, non potendo accedere a scatti di anzianità e avanzamenti di carriera.

E la tendenza non sembra arrestarsi. La presunta ripresa economica post pandemica è illusoria. È vero: l’emorragia di posti di lavoro a cui abbiamo assistito nel 2020 sembra essersi fermata. Anzi, nell’ultimo trimestre del 2021 l’occupazione ha ripreso a correre e le riaperture hanno portato nuove assunzioni, soprattutto nei settori alberghiero e della ristorazione. Si tratta, tuttavia, di contratti a tempo determinato, spesso per brevissimi periodi. Tra questi, il 40 per cento sono stati della durata di un mese, il 30 per cento di massimo 6 mesi, mentre un contratto su otto aveva durata di un giorno.

Il part-time involontario pesa soprattutto sulle donne. Per loro la disuguaglianza raddoppia, la mancanza di welfare familiare si somma al retaggio culturale che le intrappola al ruolo di cura

A incidere sono anche le ore lavorate nell’arco della giornata. Quella che dovrebbe essere una misura che migliora l’equilibrio vita lavoro si trasforma spesso in una trappola salariale: il part-time. L’Istat ha stimato che i lavoratori a tempo parziale sono il 18,6 per cento del totale. Ma quanti di loro hanno effettivamente scelto questa forma contrattuale? La maggior parte degli impiegati a regime parziale non l’ha scelto. È il cosiddetto part-time involontario. Anche se, come ha spiegato Ciucciovino "si tratta di un concetto che non trova fondamento giuridico essendo il contratto un accordo tra le parti, si presuppone che sia consensuale".

Tra i principi giuridici e la realtà, spesso, c’è un abisso. Sempre secondo l’Istat, infatti, il 64 per cento dei lavoratori dichiara di essere in regime di part-time involontario: un segnale di come il ricorso a questa modalità sia legato più alle strategie aziendali, che alle esigenze dei lavoratori.

Il part-time involontario pesa prevalentemente sulle lavoratrici. Secondo il Gender Policies Report dell’Inapp, la metà dei contratti siglati dalle donne è a tempo parziale. Per loro la disuguaglianza raddoppia, la mancanza di welfare familiare si somma al retaggio culturale che le intrappola al ruolo di cura: dei figli, degli anziani e dei parenti con disabilità. Una vita precaria, che si è rafforzata ancora di più con la crisi sanitaria: 300 mila lavoratrici hanno perso il posto durante la pandemia.

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