Rider torinesi. Credits: Rosita Rijtano
Rider torinesi. Credits: Rosita Rijtano

Mal pagati e con poche tutele, voci di lavoratori "indispensabili"

Hanno lavorato anche in piena emergenza coronavirus. C'è chi ci ha permesso di fare la spesa, chi ha consegnato i pacchi e chi ha badato ai nostri anziani: sei testimonianze

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

Aggiornato il giorno 1 maggio 2021

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Per loro la fase due non è mai iniziata. Hanno continuato a lavorare anche in piena emergenza coronavirus: badanti, cassiere, braccianti, operatori socio-sanitari, rider e corrieri. Ci hanno consentito di fare la spesa, come Monia, cassiera in un supermercato toscano, che pochi giorni fa ha rivisto suo figlio dopo due mesi di lontananza. "È andato a vivere con il papà, da cui sono separata. Non so mai quello che porto in casa e per tutelarlo ho preferito ci separassimo", racconta. Hanno consegnato a domicilio pacchi e pacchetti, come Emanuele, corriere romano che ha visto incrementare i propri ritmi di lavoro. Si sono presi cura dei nostri anziani, come nel caso di Adriana, badante a Torino, che si è dovuta auto-munire di mascherine e guanti, ritrovandosi con pochi spicci per mangiare. O di Manolo, operatore socio-sanitario in un reparto di rianimazione covid-19 nel napoletano che sbotta: "Non voglio essere chiamato eroe, ma sono stanco di essere mortificato". Tutele poche, retribuzione minima, considerazione sociale nessuna: voci di lavoratori che abbiamo scoperto indispensabili. 

Adriana, badante: "Al supermercato con 20 euro: non mi bastano per nulla"

A metà telefonata la voce le si rompe in un singhiozzo e Adriana non riesce più a trattenere le lacrime: "Sono stata forte sino ad ora, ma adesso non ce la faccio più", dice scusandosi mentre cerca di prendere fiato. Per lei il coronavirus è stata l'ennesima batosta da quando, nove anni fa, ha fatto le valigie e si è trasferita in Italia per trovare lavoro. Una scelta obbligata perché, spiega, in Romania ha tre figli da mantenere, due genitori anziani da aiutare, più il mutuo. "Venire qui è stata una scommessa". All'inizio è andata bene. Le offerte non mancavano, anche se il mestiere di badante, di cui si è innamorata, non è mai stato semplice: "Devi occuparti di persone non auto-sufficienti che vanno assistite in ogni momento della vita quotidiana: dalla pulizia ai pasti, passando per le cure mediche. La parte peggiore? Capita che offendano, o dicano bugie. Prima di capire che lo fanno perché malate, ne soffrivo". Poi tra la crisi e il fatto che spesso i datori di lavoro non la mettevano in regola, la situazione è peggiorata a tal punto che a volte sono stati i suoi familiari a dover aiutare lei, e non viceversa, altrimenti sarebbe "rimasta in mezzo a una strada".

Poi è arrivata la pandemia. La preoccupazione di un contagio, lontana da casa, non la fa dormire la notte: "Mia sorella è medico e mi ha mandato dei video orribili: so che con questo virus non si scherza". A ciò si aggiungono i pressanti problemi economici. I figli della coppia di coniugi che Adriana assiste a Torino le hanno ridotto compenso e orario di lavoro, mentre tutte le attività extra, con cui arrontondava lo stipendio, sono saltate. "Sto dormendo da un'amica e mi ritengo fortunata perché so di colleghe che hanno trovato i loro bagagli fuori dalla porta e non avevano un posto dove andare. Ma non ho più i soldi per fare la spesa. Al supermercato entro con venti euro in tasca, di cui quasi la metà la spendo per mascherine e guanti. Il resto non mi basta per nulla. Ho chiesto il bonus per gli acquisti, però non sono riuscita ad ottenerlo". Un'esclusione che l'ha lasciata con una domanda aperta: "Pago le tasse, come tutti, perché non posso avere gli stessi diritti degli altri?".

Adriana non è l'unica. Stando alle stime ufficiali le collaboratrici e i collaboratori domestici iscritti all’Inps sono 858mila, ma la Cgil alza l'asticella a oltre due milioni, di cui la maggior parte è donna, straniera e senza contratto. "Si tratta di un settore fragile e precario sempre, che richiede abnormi sacrifici personaIi. Le condizioni sono diventate ancora più drammatiche a causa della pandemia", spiega Luciana Mastrocola, responsabile del lavoro domestico della Filcams-Cgil. "Tra chi ha continuato a lavorare, in tante non sono state dotate di mascherine e guanti, mentre tutte hanno perso i pochi momenti liberi che avevano. Molte sono state licenziate e si sono ritrovate senza tetto né soldi". Eppure dal decreto Cura Italia, emanato per far fronte alle sfide economiche dell'epidemia, colf e badanti sono state espressamente escluse dalla possibilità di ottenere la cassa integrazione in deroga. Una parziale retro-marcia si è avuta con l'annuncio di un bonus che può andare dai quattro ai seicento euro e dovrebbe essere incluso nel prossimo provvedimento. "Ma non è quello che avevamo chiesto — precisa Mastrocola —, non solo perché copre solo marzo e aprile, ma anche perché non può essere richiesto da chi non ha un regolare contratto, ovvero circa il 60 per cento di queste lavoratrici".

Monia, cassiera: "Che fatica far fronte ai clienti anziani"

Dopo quasi due mesi, finalmente, pochi giorni fa è riuscita a riabbracciare il più giovane dei suoi tre figli, che ha 14 anni. "Sono ancora troppo emozionata, è stato bellissimo", esclama Monia, cassiera in un supermercato della Toscana. Dal "piccolo della famiglia" ha preferito separarsi quando le scuole sono state chiuse e lei ha continuato tutti i giorni ad andare al lavoro. "Si è trasferito a casa del papà, sia perché lì vivono anche i nonni, che avrebbero potuto dargli il supporto necessario per seguire le lezioni da remoto, sia perché ho voluto tutelarlo — spiega —. Tutti i giorni vengo a contatto con decine di persone, di cui non conosco le abitudini, e non so mai quello che porto in casa. Così ho scelto di trascorrere questo periodo da sola". I primi quindici giorni sono stati i più difficili, soprattutto al lavoro, perché mascherine e guanti tardavano ad arrivare. Un problema che ha accomunato molte realtà, il cui grido d'allarme è stato raccolto dai sindacati di categoria che a metà marzo hanno scritto una lettera aperta al premier sollecitando maggiori tutele e più chiarezza nelle misure da adottare. La tensione ha raggiunto il picco con la morte di una cassiera 48enne impiegata in un Simply Market di Brescia. Poi i dispositivi di protezione sono arrivati.

"I datori di lavoro fanno sempre più assunzioni part-time, il tempo pieno è diventato merce rara"Vincenzo Dell'Orefice - segretario nazionale Fiscat-Cisl

Ora il problema, secondo Monia, è adattarsi alle nuove modalità di lavoro: "Le abitudini dei consumatori sono cambiate: gli orari in cui si viene al supermercato sono diversi e si tende a fare acquisti per l'intera settimana. Spesso ci ritroviamo con le casse sovraffollate di prodotti, però ci stiamo organizzando bene". La parte più difficile è —ed è stata— far fronte ai clienti "indisciplinati", soprattutto anziani che continuano a far la spesa ogni giorno, se non più volte al dì, e faticano a rispettare le norme di distanziamento. "I giovani, invece, sono i più ligi". Monia raggiunge la propria trincea ogni giorno per circa 900 euro al mese. Ha un contratto part-time ed è stata una sua scelta, ma spesso non è così. "I datori di lavoro fanno sempre più assunzioni part-time, per pagare meno, e programmano i turni in base all'affluenza. Il tempo pieno è diventato merce rara", spiega Vincenzo Dell'Orefice, segretario nazionale Fisascat-Cisl. Una tendenza già in corso pre-pandemia, che rischia di diventare prassi. Ed è proprio su questo fronte che si combatterà la battaglia più ardua nei prossimi mesi.

Salari e crisi della grande distribuzione. Ascolta Vincenzo Dell'Orefice, segretario nazionale Fisascat-Cisl

Emanuele, corriere: "Come se fosse sempre Natale"

Emanuele, romano, fa il corriere in una ditta che lavora per una grande multinazionale e descrive con poche parole com'è cambiata la sua vita negli ultimi mesi.  "È come se fosse sempre Natale", dice. Perché durante le festività natalizie le compere su Internet impennano e chi quei pacchi e pacchetti li consegna non si ferma mai. Il coronavirus, impedendoci di uscire e imponendo la chiusura dei negozi, ha trasformato la quotidianità in un perenne Natale. "L'azienda chiede di fare più consegne del solito", mentre la paga è rimasta uguale (circa 1300 euro nette) così come l'orario di lavoro. "Veniamo incentivati a sbrigarci perché il tempo è lo stesso, sono le consegne ad aumentare". E se prima la media era di 100 pacchi recapitati al giorno, ora è balzata a 150. Ritmi già stressanti, che adesso stanno diventando insostenibili, e a cui vanno addizionate le complicazioni legate alla pandemia: "In questi mesi, in cui tutto è rimasto chiuso, ho faticato a trovare da mangiare e persino un posto in cui andare in bagno", racconta Emanuele. Per non parlare della paura di portare in casa tracce di Covid-19. "Ho una bimba piccola e ho continuato a lavorare con il terrore. Quando rientro, lei e mia moglie non si avvicinano se prima non mi sono lavato e ho cambiato i vestiti, che vengono subiti messi in lavatrice. Cambiamenti che stanno avendo un profondo impatto sulla mia vita".

A pesare di più, però, è l'accresciuta mole di lavoro. Le parole di Emanuele trovano conferma nei dati che stimano un incremento degli acquisti online di oltre l'80 percento. Michele De Rose, segretario nazionale della Filt-Cgil, crede che difficilmente si tornerà indietro, ecco perché "bisognerà garantire adeguati ritmi lavorativi". Tuttavia, le richieste si scontrano con la refrattarietà dei big dell'e-commerce, soprattutto Amazon che "nel nostro Paese non vuole avere rapporti con i sindacati". "La situazione — aggiunge De Rose — è ulteriormente complicata dal fatto che la multinazionale non ha dipendenti diretti, ma appalta le consegne a ditte esterne. Infatti, una delle nostre richieste è un'internalizzazione che costringa l'azienda ad assumersi le proprie responsabilità". Sul piatto c'è anche il rinnovo del contratto nazionale della categoria. La trattativa è iniziata prima dell'emergenza ed è al momento sospesa. "Speriamo riprenda a giugno. Tra gli aspetti su cui stiamo lavorando c'è il diritto alla disconessione. Questi lavoratori vengono costantemente monitorati ed è inaccettabile", conclude il sindacalista.

Matteo, rider: "Auto-munito di mascherine. Dall'azienda non ho ricevuto nulla"

È un'istantanea cui ci siamo abituati nei mesi scorsi: strade popolate solo dalle biciclette di chi consegna il cibo a domicilio, i cosiddetti rider. Tra loro anche Matteo, che ha continuato la propria attività a Milano. Ha iniziato nel 2018, prima part-time e poi a tempo pieno. "Ho fatto richiesta sul sito di Just Eat, ho aspettato due settimane per un colloquio operativo, infine ho ricevuto il cassone e scaricato l'app". E ha iniziato a pedalare, per poco più di sei euro lorde a consegna. In questi mesi non ha smesso. I primi giorni la paura e le prime restrizioni hanno determinato una battuta d'arresto ma dopo neanche una settimana ha ripreso a correre come prima. Si è munito di mascherine, e non di guanti, da sé mentre l'azienda non ha gli ha fornito né rimborsato nulla, assicura. Il ritardo con cui le piattaforme si sono mosse è stato denunciato anche da una relazione dei carabinieri del nucleo Tutela del lavoro di Milano, depositata in procura. Dalla analisi è venuto fuori che tra le società sotto scrutinio l'unica ad essersi adeguata è stata Just Eat. Mentre Deliveroo e Foodinho srl (riconducibile a Glovo) hanno fatto quasi nulla.

"I rider hanno continuato a lavorare anche nei momenti di maggiore criticità e sono stati poco, se non affatto, tutelati", conferma il colonnello dei carabinieri Antonio Bolognani, a capo del gruppo che ha svolto l'indagine. "È una categoria fragile, cui prestiamo la massima attenzione". Una categoria diventata simbolo della storture della gig economy, una delle nuove forme di organizzazione dell'economia digitale che sfrutta il lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo. Per garantire delle tutele di base nel novembre 2019 è stato convertito in legge il decreto legislativo 101. La norma ha prodotto qualche passo in avanti, come la copertura Inail: 48,74 euro al giorno in caso di incidente o malattia professionale. Ma ha lasciato in sospeso la retribuzione. Entro il prossimo novembre app e associazioni di categorie dovrebbero raggiungere un accordo per mettere nero su bianco un contratto dei rider. Scaduto il termine, toccherà al ministero del Lavoro applicare un salario minimo orario, basato su quello del settore più affine, e aumentato del 10 per cento se si lavora di notte, nei festivi o con condizioni meteo avverse. Al momento, però, è tutto fermo. 

Manolo, operatore socio-sanitario: "Non voglio essere chiamato eroe, ma sono stanco delle mortificazioni"

"Per alcuni giorni ho dormito in macchina, di nascosto, poi mia moglie mi ha scoperto e mi ha costretto a tornare in casa, sul divano". Manolo Ciancio è un operatore socio-sanitario. Lavora nel reparto di rianimazione covid-19 dell'ospedale di Frattamaggiore, in provincia di Napoli, e da 45 giorni non tocca una persona. "Continuo a rimanere il più distante possibile sia da mia moglie sia da miei figli — dice —. Ho due maschi di 5 e 10 anni. All'inizio erano spaventatissimi perché mi vedevano poco e non potevano più abbracciarmi. Con il tempo hanno capito, anche se continuano a soffrire la separazione". Il coronavirus ha stravolto tanto le abitudini domestiche, con Manolo che oltre ad auto-isolarsi dal resto della famiglia si trova a dover disinfettare sempre tutto, quanto le modalità di lavoro. "Non posso più avere alcun rapporto con i malati ed è venuta meno l'empatia, fondamentale nel nostro mestiere. Inoltre, devo indossare speciali tute protettive. Per vestirmi e svestirmi impiego circa un'ora, quindi arrivo a lavoro un'ora prima e vado via un'ora dopo: tempo extra che non viene calcolato in busta paga"

Gli operatori socio-sanitari sono stati, e continuano a essere, tra i più esposti al coronavirus. Negli ospedali, dove si occupano dell'igiene dei pazienti e del luogo in cui si trovano, e soprattutto nelle Rsa, dove sulle loro spalle grava tutta l'assistenza agli anziani. Qui "molto spesso un solo operatore si trova a dover gestire oltre settanta persone", puntualizza Angelo Minghetti, segretario del Migep, la federazione nazionale delle professioni sanitarie e sociosanitarie. Il tutto per un "compenso che va dai 900 ai 1200 euro per dodici ore di lavoro, mentre gli straordinari non vengono pagati". Lavoratori che in piena emergenza sono stati spesso abbandonati a loro stessi e hanno vissuto in un clima che Minghetti definisce di terrore. "Con la connivenza dei politici, i dirigenti delle residenze per anziani hanno imposto il silenzio su quanto stava accadendo al loro interno, pena il licenziamento. Come è accaduto a una signora di Genova, prima firmataria di una lettera aperta in cui il personale di una struttura chiedeva mascherine".

L'appello: "La pandemia non limiti la trasparenza"

I risultati? Dall'inizio della pandemia sono morti venti operatori socio-sanitari. A Manolo non piace essere definito un eroe, "faccio solo il mio lavoro, come gli altri", ma quantomeno vorrebbe che gli venisse riconosciuta dignità professionale. "Invece troppo spesso siamo ancora mortificati, da colleghi e pazienti. C'è chi ci chiama lavaculi".

Mohammed, bracciante: "Senza lavoro da due mesi"

Due mesi fa Mohammed stava raccogliendo le ultime arance in un agrumeto della piana di Gioia Tauro, in Calabria, quando sono arrivati i carabinieri e hanno mandato via tutti. Chiuso causa coronavirus. Il ragazzo, arrivato in Italia dalla Libia cinque anni fa, si era ritrovato a fare il bracciante dopo un'esperienza come mediatore culturale e dopo aver perso la protezione umanitaria per effetto dei decreti Salvini. "Si lavora otto ore al giorno per circa trentacinque euro", dice. Dall'inizio dell'emergenza non è più riuscito a trovare un'occupazione. Trascorre le giornate tra quattro lamiere in contrada Russo, nel ghetto di Taurianova, "uno dei peggiori non solo della Calabria ma anche di tutta Italia", assicura Giorgia Campo, dello sportello dei diritti Soumaila Sacko. Quasi un paradosso visto che in altre zone d'Italia c'è bisogno di manodopera stagionale. Mohammed lo sa, ma non può spostarsi. Come lui, tanti, e affollano una fetta di campagna calabra, andando a esasperare una situazione già compromessa.

Le condizioni dei migranti nel ghetto di Taurianova. Ascolta Giorgia Campo, sportello dei diritti Soumaila Sacko

Il quadro lo fornisce Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, progetto della Federazione delle chiese evangeliche, che in piena pandemia si è messo a produrre gel igienizzante in casa, per poi distribuirlo nei diversi insediamenti. Nella "tendopoli di San Ferdinando che al momento ospita circa quattrocento persone registrate. Ha i servizi igienici, ma l'elettricità scarseggia". Nel campo container "a Rosarno, dove centocinquanta persone vivono in una ventina di container, con appena luce e acqua". Infine, nel "ghetto di Taurianova, in cui l'immondizia non viene raccolta e di recente hanno tolto anche l'acqua". Condizioni che rimarranno irrisolte anche nel caso in cui dovesse passare la discussa regolarizzazione che nelle scorse ore ha infiammato il dibattito pubblico e fatto traballare il governo. "Servono politiche ad hoc per riequilibrare la filiera agricola e mettere fine allo sfruttamento", prosegue Piobbichi. Ma prima di tutto andrebbe risolto il problema abitativo, in modo da garantire a questi lavoratori un alloggio dignitoso. Le possibili soluzioni non mancano. "Si potrebbero sfruttare gli alberghi inutilizzati, i beni confiscati alla mafia, le strutture del sistema di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, nonché dei centri di accoglienza straordinaria. Tutte alternative che abbiamo proposto". Per ora nessuna risposta.

Marco, operaio ex Ilva: "Dotati di una mascherina per una settimana, licenziato chi denuncia"

"Ci danno una mascherina per l'intera settimana, come può proteggerci?", si domanda Marco, operaio ex Ilva di Taranto, che in questi mesi non ha mai smesso di andare in fabbrica, nonostante i sindacati avessero chiesto la temporanea chiusura dell'acciaieria per tutelare la salute dei lavoratori. L'appello non solo è rimasto inascoltato, ma dal decreto di marzo che ha sospeso le attività produttive, industriali e commerciali del Paese, sono stati espressamente esclusi gli impianti a ciclo produttivo continuo. Un'eccezione che, secondo Emanuele Palmisano dell'Unione sindacale di base (Usb), è stata fatta ad hoc per l'azienda di Taranto oggi nelle mani della multinazionale franco-indiana ArcelorMittal. La vita nello stabilimento è proseguita, a ritmi ridotti, come se pandemia non fosse. E chi ha denunciato pubblicamente l'assenza di guanti, mascherine e gel igienizzante è stato licenziato. Marco è preoccupato, ma ancor più del covid teme per la sicurezza dei macchinari:"Manca la manutenzione, non c'è più alcun controllo, e si interviene solo in caso di guasto".

Sciopero dei lavoratori Ilva. Foto: Emanuele Palmisano
Sciopero dei lavoratori Ilva. Foto: Emanuele Palmisano
"Manca la manutenzione, non c'è più alcun controllo, e si interviene solo in caso di guasto"

Le tensioni tra operai e ArcelorMittal, che ha assunto il controllo parziale dell'acciaieria in virtù di un contratto siglato nel 2018, non si sono mai sopite. Negli ultimi giorni l'annuncio di una nuova cassa integrazione per mille addetti e la retromarcia sul rientro di 630 operai dell'area a freddo ha acuito le frizioni, portando i caschi gialli a uno sciopero: il primo dopo il lockdown. Palmisano parla di "una gestione predatoria" da parte della multinazionale che "non ha investito, come avrebbe dovuto, nella trasformazione ecologica dell'impianto, né nella manutenzione, non ha rispettato i criteri di selezione per scegliere il personale ed è stata condannata per comportamento antisindacale. Non ha assunto il numero dei lavoratori previsto nell’accordo siglato nel 2017, cioè 10.700. Non sta pagando le aziende fornitrici e ha iniziato una campagna di terrore licenziando in maniera ingiustificata decine di lavoratori". Stando a quanto rivelano fonti governative al Fatto Quotidiano, l'azienda avrebbe ormai come unico obiettivo l'abbandono dell'azienda.

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