
Dopo il suicidio di Hamid, va fermata la "catena degli svantaggi"

I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) sono strutture preposte alla detenzione amministrativa di migranti irregolari sottoposti a un ordine di espulsione. La loro funzione è l’identificazione e l’espulsione degli stranieri (provenienti da paesi extraeuropei) senza un regolare documento di soggiorno sul territorio italiano. La privazione della libertà personale avviene in assenza di reato, bensì sulla base di una violazione amministrativa: l’ingresso o il soggiorno irregolare in Italia.
I centri per il rimpatrio aperti e funzionanti sul territorio italiano sono dieci. Secondo l’ultimo elenco pubblicato dal ministero dell'Interno si trovano: a Gradisca d'Isonzo (Gorizia), Milano, Torino, Roma, Potenza, Bari, Brindisi, Trapani, Caltanissetta e Macomer (Nuoro). Alla lista occorre aggiungere il cpr di Gjadër in Albania.
Le strutture sono spesso collocate in aree extraurbane, all’interno di fabbricati già esistenti: spesso si tratta di ex strutture penitenziarie, ex caserme o centri polifunzionali situati nei pressi di zone militari e aeroporti. La capienza complessiva è di circa 1.100 posti.
In Italia, la detenzione amministrativa dei cittadini stranieri in attesa di espulsione è stata introdotta dal Testo unico sull'immigrazione (a firma di Livia Turco e Giorgio Napolitano), che ha istituito i Centri di permanenza temporanea e di assistenza (Cpta).
Ridenominati Centri di identificazione ed espulsione (Cie) dalla legge Bossi-Fini del 2002, i cpr hanno assunto il nome attuale con la legge Minniti-Orlando del 2017 che prevedeva di ampliarne l’utilizzo e aprirne uno in ogni regione. Queste strutture detentive sono l’ultimo anello di una politica migratoria che punta all’“esternalizzazione dei confini”: mediante la stipulazione di accordi con i paesi d'origine e transito dei migranti si nega de facto il diritto alla mobilità. Ne sono un esempio i due centri in Albania, aperti nell’ottobre 2024 a a Shëngjin (per l’identificazione) e a Gjadër, voluti dal governo Meloni.
Nei centri di permanenza per il rimpatrio sono state trattenute, nel 2021, persone provenienti da 71 paesi. Tuttavia, le nazionalità più rappresentate sono quelle nord-africane e in particolare quella tunisina: tra il 2014 e il 2023 i cittadini provenienti dalla Tunisia rappresentano la componente maggioritaria, con una media del 55,5 per cento degli ingressi annuali. Tra le altre nazionalità, solo i cittadini di origine marocchina superano il 10 per cento del totale di ingressi.
Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione (mediante accompagnamento alla frontiera) oppure il respingimento, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario nel centro di permanenza per il rimpatrio più vicino.
A decidere il trattenimento è quindi la questura, mentre la convalida (che deve avvenire entro le 48 ore successive) spetta al giudice di pace.
Nel testo originario, la permanenza massima era di 30 giorni (raddoppiata poi dalla legge Bossi-Fini e aumentata a 180 giorni dal decreto Sicurezza firmato da Matteo Salvini). Nel 2023, il governo Meloni ha innalzato la durata della detenzione fino a diciotto mesi, anche per i richiedenti asilo.
Mentre le denominazioni e il termine massimo di trattenimento sono stati modificati, ciò che non sembra cambiare dal 1998 a oggi sono le criticità.
La detenzione amministrativa nei cpr è uno “stato di eccezione” che si manifesta in ogni ambito: dai “modi della detenzione” stabiliti con mero regolamento ministeriale e non da fonti di rango primario, come richiederebbe la “riserva di legge” costituzionale (art.13, Cost.); alle convalide e proroghe del trattenimento affidate, eccetto pochi casi (es. richiedenti asilo) alla magistratura onoraria, ossia ai giudici di pace a cui il legislatore non ha attribuito il potere di disporre pene detentive (le udienze si svolgono nel centro anziché in un’aula giudiziaria, con durata variabile tra i cinque e i dieci minuti).
A questo si aggiungono le pessime condizioni di trattenimento: dall’inadeguatezza delle strutture, con gravi forme di sovraffollamento (locali fatiscenti, assenza di acqua calda e cibo immangiabile), alla promiscuità delle condizioni giuridiche dei presenti e la detenzione di migranti fortemente vulnerabili (vittime di tratta e di sfruttamento lavorativo, minori, richiedenti asilo, malati e tossicodipendenti). L’assistenza legale e quella sanitaria risultano insufficienti, con un abuso nella somministrazione di psicofarmaci e numerosi casi di autolesionismo e tentativi di suicidio. E di cpr si muore: dal 2018 al 2022, si contano 14 suicidi.
Tra i problemi riscontrati anche il sequestro dei cellulari per impedire ai trattenuti di comunicare con il mondo esterno, e dunque per evitare l’organizzazione di rivolte nei centri, e la mancanza totale di attività – scolastica, formativa o ricreativa – per gli “ospiti”.
Quasi la metà dei migranti trattenuti (47%) riottiene la libertà dopo un periodo detentivo più o meno lungo. I rimpatri forzati subiscono ritardi nell’esecuzione a causa della mancanza di accordi con i paesi d’origine delle persone in attesa di espulsione: nel 2023 dai cpr è stato rimpatriato solo il 10 per cento degli stranieri con un provvedimento di allontanamento, ovvero 2.987 su 28.347, mentre il totale dei rimpatri effettuati è stato di 4.267.
La gestione dei centri viene affidata dalle prefetture a soggetti privati, tramite bando.
Secondo il Report CPR 2023 elaborato dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild), nel periodo 2021-2023, le prefetture hanno bandito gare d’appalto finalizzate alla gestione dei dieci cpr attualmente attivi per un costo complessivo di 56 milioni di euro (12 milioni in più rispetto al triennio precedente). Cifra a cui vanno sommati i costi del personale di polizia e quelli relativi alla manutenzione delle strutture.
Si registrano due preoccupanti tendenze: da un lato, la massimizzazione dei profitti da parte delle imprese private che gestiscono i centri; dall’altro la minimizzazione dei costi da parte dello Stato, con una deresponsabilizzazione delle autorità pubbliche rispetto alla gestione delle strutture. Questo si riflette anche nella carente assistenza sanitaria all’interno dei centri.
Non esistono dati ufficiali, ma secondo il rapporto Trattenuti 2024 di ActionAid, nei centri per il rimpatrio con capacità inferiore ai 150 posti, si stima che il costo medio giornaliero per ogni trattenuto sia di 32,15 euro; nei centri con più di 150 posti è di 24,65 euro: un mese di trattenimento costa allo Stato tra i 750 e i mille euro a persona.
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