4 marzo 2021
“La parità di genere non è una questione femminile o di inclusione sociale”. O meglio: non è solo una questione di parità tra donne e uomini. Ne è convinta Azzurra Rinaldi, direttrice della School of gender economics di Unitelma Sapienza nonché co-fondatrice de Il giusto mezzo – la versione italiana di Half of it –, l’iniziativa lanciata dall’europarlamentare Alexandra Geese per chiedere che la metà dei fondi previsti dal Recovery plan sia spesa per superare questa distanza. Durante la prima ondata di Covid-19, Geese ha chiesto a lei e all’economista Elisabeth Klatzer di analizzare il pacchetto di fondi voluti dalla Commissione europea e finiti poi nel piano NextGenerationEu. Lo studio ha portato a una conclusione impietosa: invece di finanziare i settori più colpiti dalla pandemia (a sinistra nel grafico) – ovvero quelli a maggior presenza femminile come educazione e servizi alla persona –, il Recovery plan si focalizza soprattutto su costruzioni, energia, trasporti e tecnologie dell’informazione e della comunicazione (a destra nel grafico): tutti settori a prevalenza maschile.
Una scelta che Rinaldi ritiene deleteria proprio dal punto di vista economico: “La disparità di genere costa ogni anno all’Europa 370 miliardi di euro. Per la Banca d’Italia, se le donne fossero occupate al 60 per cento, il Pil italiano aumenterebbe di circa sette punti percentuali. Cos’altro ci serve per capire che è giunto il momento di cambiare rotta?”.
Rinaldi, a che punto siamo in Italia?
Se guardiamo i dati, purtroppo è sempre peggio. A dicembre, su 101mila persone che hanno perso il lavoro, 99mila sono donne. È un dato quasi surreale, che pesa ancora di più se lo guardiamo in termini percentuali, perché già prima della pandemia, in Italia le donne era molto meno occupate degli uomini. Nel 2019 avevamo appena superato il 50 per cento di occupazione femminile: 1 donna su 2 in Italia lavorava, nonostante le enormi differenze territoriali con oltre il 60 per cento di occupate al Nord e poco più del 33 al Sud. Sembrava un risultato consolidato, e invece siamo già tornati a un tasso di occupazione femminile del 48,6%. Ogni volta che le donne conseguono un risultato non possono comunque smettere di difenderlo con le unghie e con i denti.
E se guardiamo la politica? Finalmente la crisi di governo è passata.
La situazione è la stessa di prima, bisogna rimettere mano al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e tenere conto delle donne. Al momento non se ne sa nulla, ma noi rimaniamo vigili.
È fiduciosa?
Purtroppo questo governo non brilla certo per ministre: sono poche e senza portafoglio. Quindi forse il livello di preoccupazione si è addirittura innalzato.
Sta dicendo che è più preoccupata ora con il governo Draghi rispetto al secondo governo Conte?
Sto dicendo che eravamo convinte ci sarebbe stato un cambio di passo e così non è stato. Aspettiamo che il governo si assesti e poi chiederemo di interloquire anche con i nuovi ministri. D’altra parte per noi non è una questione di colore politico: la parità di genere deve per forza diventare un tema prioritario, il Paese non può ripartire senza affrontare questo divario.
"Fra i liberi professionisti le donne sono il 36%, ma sono laureate all’80% contro il 61% degli uomini. Il fatto che non producano reddito è una clamorosa perdita di efficienza"
L’ultima bozza di Pnrr, risalente al 12 gennaio, sarebbe sufficiente?
Nella prima bozza a novembre c’era poco più che un elenco di buone intenzioni, il genere rimaneva una categoria residuale, alla voce “Parità di genere, coesione sociale e territoriale”, insomma: la categoria degli sfigati. Poi le nostre istanze sono state raccolte e nella bozza del 12 gennaio le donne sono diventate un tema trasversale e inserite nelle prime pagine assieme a giovani e Sud. Ma a quel punto la questione della forza lavoro femminile è rimasta sono nell’introduzione, sparendo dal dettaglio dei fondi. Quindi no, non ci siamo ancora.
"Ogni donna italiana spende oltre 5 ore al giorno in lavoro di cura non retribuito (gli uomini due). Il covid ne ha aggiunte 15 a settimana per ogni donna"
Perché secondo lei? È un problema di mancanza di competenze in materia?
Non credo, e anche fosse un problema di mancanza di competenze non sarebbe scusabile. Ci sono esperte bravissime che si occupano di questi temi da 40-50 anni, se i politici si sono sbagliati perché non sapevano cosa fare, hanno sbagliato due volte perché non hanno chiamato le persone giuste. Volendo credere alla buona fede, posso immaginare che non sia ancora chiaro che ne va della ricchezza di tutto il Paese anche se continuiamo a ripeterlo ed è pure un concetto banale: se in famiglia lavora solo l’uomo ovviamente il reddito si abbassa. Il modello italiano del cosiddetto breadwinner (l’uomo che mantiene la famiglia, ndr) fa male all’economia.
Se questo piano lo scrivesse Il giusto mezzo, cosa ci sarebbe dentro?
Bisogna partire dal mercato del lavoro e favorire l’occupazione femminile e per farlo i 400 milioni in due anni stanziati nell’ultima legge di bilancio sono ridicoli. Bisogna piuttosto vincolare i finanziamenti che verranno erogati al tasso di occupazione femminile e al contempo affrontare il problema dell’accesso al credito: le imprese femminili continuano ad avere maggiori problemi di accesso al credito perché i valutatori delle banche sono uomini e settano i parametri del successo di un’azienda su caratteristiche maschili. Non ci può essere un solo motivo per cui a parità di mansioni e capacità le donne fatichino di più. Infine dobbiamo potenziare l’infrastruttura sociale che sta attorno alla famiglia. Sugli asili nido, per esempio, continuiamo a essere ben lontani dagli obiettivi di Barcellona così come sul tema della paternità obbligatoria che in Italia è di soli 10 giorni.
Come sta andando la campagna?
Abbiamo superato le 50mila firme, ma dovremmo quadruplicare questi numeri: quanto più rumore riusciremo a fare, chiedendo di firmare la petizione a uomini e donne, tanto più ci ascolteranno, ce l’hanno detto dall’inizio gli stessi ministri.
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