10 marzo 2021
Avevo 16 anni e poi 24, e lo confesso: mi sono scattata delle foto nuda davanti allo specchio e le ho inviate a un uomo. Che quelle immagini sarebbero potute diventare un’arma nelle sue mani, l’avrei capito solo molto tempo dopo. Era il 2017, di anni ne avevo quasi trenta e nell’aula di musica di una scuola di periferia incontravo Anna, una quattordicenne vittima di violenza digitale. Le sue braccia erano ancora martoriate dai tagli delle lamette da barba con cui si era fatta del male. Quel giorno di febbraio mi ha raccontato di come per mesi era rimasta chiusa in una stanza, senza riuscire a mangiare né a dormire, mentre tutto le sembrava aver perso di senso: "Respiravo, ma ero morta". Una morte iniziata quando ha visto i propri scatti intimi finire nelle mani di compagni di scuola e sconosciuti, coetanei e adulti. Il ragazzo a cui li aveva spediti li ha inoltrati agli amici e poi è stato impossibile fermarli. Uomini di tutte le età l’hanno contattata sui social network per chiederle altre foto o prestazioni sessuali, a volte ricattandola: se non li avesse soddisfatti, avrebbero pubblicato il materiale online, portando avanti l’incubo. Seduta su una sedia al centro della stanza, Anna parlava senza smettere di tremare e, guardandola intabarrata in una felpa nera di una taglia più grande, ricordo di aver pensato che mi somigliasse. Al suo posto avrei potuto esserci io. Ascoltando la sua storia, la reazione istintiva è stata di credere che mi ero salvata per fortuna. Poi ho provato vergogna: per essere stata così sprovveduta e per aver scattato quelle immagini, per aver osato desiderare.
“Le donne che condividono le proprie immagini intime sono considerate stupide o delle poco di buono”
Dopo l’incontro con Anna, ho seguito alcune attività di educazione digitale che la Polizia postale porta avanti nelle scuole d’Italia e ho fatto delle ricerche per capire se io e Anna avessimo avuto un’esperienza non comune. Ho scoperto che in realtà l’invio di "contenuti sessualmente espliciti", chiamato sexting dalla fusione delle parole inglesi sex (sesso) e texting (messaggio), è popolare. L’ultima indagine condotta in Italia da skuola.net per conto della Polizia di Stato è del 2019 e ha interpellato 6.500 giovani tra i 13 e i 18 anni. Il 24 per cento di loro ha detto di aver scambiato almeno una volta i propri scatti intimi via chat o social. Il problema è l’uso scorretto che si fa di questo materiale. La diffusione non consensuale di immagini intime è diventata un reato conosciuto al grande pubblico con il nome di revenge porn. Il primo caso italiano che ha avuto un'eco mediatica è del 1998. Lei aveva 15 anni, lui 18. Si era fatto prestare una telecamera dagli amici e l’aveva convinta a farsi filmare mentre facevano sesso, rassicurandola: "Tanto lo dobbiamo vedere solo io e te. Lo guardiamo insieme e poi lo cancelliamo subito". Invece è finito online. Il video è stato guardato, scaricato e condiviso da milioni di persone ed è tutt’oggi oggetto di discussione in alcuni forum, dove qualche utente ironizza: "Ma perché c’è ancora qualcuno che non l’ha visto?!".
Ci sono voluti più di dieci anni, e centinaia di casi, perché si arrivasse a una tutela giuridica ad hoc con la legge numero 69 del 19 luglio 2019 (battezzata Codice rosso) che ha introdotto la reclusione da uno a sei anni e una multa da cinque a 15mila euro per "chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate". Viene punito anche chi minaccia la diffusione del materiale e coloro che lo inoltrano dopo averlo ricevuto. Un’aggravante è prevista se la persona che commette il reato è, oppure è stata, legata sentimentalmente alla vittima.
“La diffusione di queste foto ha sulla vittima conseguenze psicologiche simili a uno stupro”
I numeri ufficiali fotografano una realtà tanto preoccupante quanto parziale. Dal 9 agosto 2019 all'8 agosto 2020 la Polizia criminale ha registrato 718 casi, circa due al giorno. L'82 per cento delle vittime è donna e il 17 per cento ha meno di 18 anni. Ma molto è il sommerso se si pensa che un portale dedicato alla condivisione di foto "di fiche" conta 200mila utenti, due milioni di allegati e 400 milioni di download. E se è vero che le regole per lo scambio di immagini amatoriali chiedono di rendere la protagonista non riconoscibile, basta seguire un paio di discussioni per capire che non sempre la norma è rispettata. La situazione non migliora sull’app di messaggistica Telegram, dove a novembre PermessoNegato – associazione no-profit che fornisce supporto tecnologico e consigli legali alle vittime di violenza online – ha individuato 89 gruppi/canali attivi nella diffusione di materiale pornografico non consensuale, con un pubblico complessivo di sei milioni di utenti: a maggio le chat erano 29 e i seguaci 2,2 milioni. Nel calderone finiscono mogli, fidanzate, ex, partner occasionali che hanno condiviso un momento di intimità, credendo rimanesse tale.
È la vergogna a far sì che molti episodi non vengano denunciati, dice Anna Lisa Lillini, dirigente della Polizia postale. Ed è sempre la vergogna ad aumentare il peso psicologico sulle abusate, aggiunge Nadia Muscialini, saggista e psicanalista in servizio all’ospedale San Carlo Borromeo di Milano. Muscialini ha fondato, nonché diretto fino al 2015, il centro antiviolenza per donne e bambini Soccorso rosa. Conosce bene sia le vittime di stupro sia le vittime del cosiddetto revenge porn e spiega come queste ultime facciano fatica, tanto a livello giudiziario quanto a livello culturale, a far capire come "l’abuso, anche se commesso attraverso strumenti informatici, abbia sulla psiche della donna effetti equiparabili alla violenza sessuale".
“Online e offline le donne vivono una sessualità violata e censurata”
La letteratura scientifica al riguardo è ancora agli esordi, ma uno studio qualitativo dell’università canadese Simon Fraser a firma di Samantha Bates suggerisce che l’impatto sulla salute mentale è simile: disturbi post-traumatici da stress, ansia, profonda sfiducia nell’altro, depressione, fino – nel peggiore degli esiti – al suicidio. Se da un lato viene a mancare la brutalità dell’aggressione fisica, dall’altro due fattori rendono la diffusione di questo tipo di foto e/o video particolarmente traumatica per chi la subisce. Il primo riguarda la difficoltà di rimuovere il materiale dalla Rete. Matteo Flora, presidente di PermessoNegato, avverte che sperare in una cancellazione totale è un’utopia. Tutto quel che si può fare è una "manovra di mitigazione del danno", cui si associa la paura di vedere il materiale pubblicato di nuovo online, e quindi di rivivere il trauma. Il secondo ha a che fare con il pubblico a cui si viene esposti: milioni, se non miliardi, di utenti. A ciò si aggiunge una violenza secondaria – prosegue Muscialini –, cioè la lettura dei commenti di centinaia di persone che sostengono tu te lo sia meritato. "Coloro che cedono il proprio materiale intimo vengono considerate stupide o delle poco di buono. È un’amplificazione dello stigma collettivo che offline bolla le donne che non hanno problemi con la propria identità femminile e con la propria sessualità. È difficile far considerare la donna come parte lesa ed è difficile che trovi solidarietà, soprattutto femminile".
"A fare più male è stato il fatto di non essere creduta", mi ha raccontato la maestra d’asilo di Torino che nel 2018 ha perso il lavoro dopo che l’ex ha condiviso le foto di lei nuda nella chat dei compagni di calcetto. Lei non ne ha saputo nulla fino a quando la moglie di uno di loro non l’ha riconosciuta come insegnante del figlio per via del nome visibile su una delle immagini e, con la complicità del marito, l’ha spedita ad altre mamme. Sono state loro a gridare allo scandalo in un contesto che l’avvocato Domenico Fragapane, difensore della giovane insieme a Dario Cutaia, definisce da "America puritana".
Quando chiedo a legali, autorità ed esperti cosa possiamo fare per proteggerci, quasi sempre la risposta è la stessa: non mandate le vostre immagini intime. In altri termini, limitatevi. Nel più progressista dei casi si domanda l’adozione di una serie di accortezze: assicuratevi di non condividere dettagli che vi rendano identificabili, come un tatuaggio, e che la foto non venga geolocalizzata; proteggetevi per quanto possibile dagli screenshot; disattivate i servizi che fanno automaticamente il backup delle immagini e via discorrendo.
Le accortezze e il buon senso sono necessari, ma così la responsabilità di eventuali abusi ricade quasi solo sulle donne. Soprattutto se agli uomini non viene insegnato a non domandare o scattare quelle foto, e – in primis – a non condividerle con altri. Il punto lo sintetizzano le responsabili di Chayn Italia, una piattaforma che utilizza tecnologie open source per fornire supporto contro la violenza di genere: "Possiamo dire che le donne vivano una condizione di sessualità violata e censurata". Eppure, i luoghi virtuali dove veniamo umiliate e insultate dimostrano che il fenomeno va al di là del materiale scambiato.
Lo chiamano revenge porn (vendetta porno), presupponendo ci sia un torto da vendicare
Tra le tante immagini rubate che ho visto lavorando a quest’articolo, ce n’è una che mi ha molto colpita: l’autore è riuscito a posizionare lo smartphone sotto la gonna di un’inconsapevole adolescente in fila al supermercato e ne ha immortalato le mutande, guadagnando elogi dagli altri utenti, come: "Che pazzo, un mito", "Ho il cazzo in tiro veramente, bravo!", "Sei un grande. Stima per te e grazie tante!".
Come spiega un articolo pubblicato su Valigia blu, è necessario ribaltare la narrazione a partire dall’espressione usata per definire questo tipo di reato, cioè revenge porn. In italiano si traduce come vendetta porno: una definizione scorretta per due motivi. La vendetta presuppone che ci sia un torto da riparare, quando non è così, mentre la pornografia rimanda a un’attività consensuale quando nella diffusione di foto intime a mancare è proprio il consenso. Ecco perché l’aspetto culturale è decisivo nel contrastare questa forma di violenza. Lo dice bene Silvia Semenzin, sociologa e ricercatrice all’università Complutense di Madrid, intervistata da Claudia Torrisi: "Se non si riparte dall’educazione, non si risolve nulla. Servono programmi sulla parità di genere, sull’educazione sessuale, emotiva e anche digitale".
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