Il giusto mezzo, versione italiana di Half of it, chiede la metà dei fondi di NextGenerationEu per colmare il gender gap
Il giusto mezzo, versione italiana di Half of it, chiede la metà dei fondi di NextGenerationEu per colmare il gender gap

Alexandra Geese: "Prendiamoci la metà del potere che ci spetta"

L'eurodeputata Alexandra Geese è la promotrice di Half of it, la campagna che chiede che la metà dei fondi del Recovery plan sia investito per le donne

Francesca Dalrì

Francesca DalrìGiornalista, il T quotidiano

5 marzo 2021

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Un anno fa Alexandra Geese, europarlamentare dei Verdi tedeschi, ci credeva ancora. "Con la pandemia il lavoro delle donne è diventato visibile e ho pensato: passata l’emergenza, le politiche di genere saranno finalmente al centro dell’agenda politica – racconta –. Ma quando si è trovato un accordo su NextGenerationEu, le donne sono state di nuovo dimenticate". Peggio: invece di contrastare le disuguaglianze esacerbate dalla pandemia, il Recovery plan europeo rischia di riprodurre le disparità esistenti, stanziando la maggior parte delle risorse in settori a prevalenza maschile. Per questo l’europarlamentare tedesca ha lanciato l’iniziativa Half of it – in Italia Il giusto mezzo – con cui chiede che la metà dei fondi previsti siano spesi per superare questa distanza.

"Non è questione di parità: il gender gap fa male all'economia", Azzurra Rinaldi, co-fondatrice de Il giusto mezzo

I numeri le danno ragione. La situazione post lockdown è così drammatica da aver spinto gli economisti a parlare di "shecession", dalla fusione del pronome personale femminile she (lei) con la parola recession (recessione). In Italia sulle 444mila persone che hanno perso il lavoro in dieci mesi di pandemia, 312mila sono donne: il 70 per cento. Al Sud, nel secondo trimestre 2020, il tasso di disoccupazione femminile è salito tanto da annullare tutti i progressi fatti dopo la crisi del 2008.

NextGenerationEu prevede che ogni Stato membro investa il 37 per cento delle risorse per l’ambiente e il 20 nel digitale. Servirebbe una quota fissa anche per le politiche di genere?

Alexandra Geese, europarlamentare dei Verdi tedeschi e fondatrice di Half of it
Alexandra Geese, europarlamentare dei Verdi tedeschi e fondatrice di Half of it

L’ideale dovrebbe essere il 50 per cento delle risorse, visto che le donne pagano la metà delle imposte. Ma la questione è trasversale e deve riguardare tutti i settori economici. Nel digitale, ad esempio, le donne sono il 17 per cento e se guardiamo ai ruoli apicali la quota precipita ulteriormente. Chiediamo che le aziende destinatarie degli aiuti del Recovery plan presentino delle valutazioni di impatto di genere ex ante ed ex post per spiegare come intendono aumentare l’occupazione femminile.

Siamo ancora in tempo per vincolare i fondi a queste valutazioni di genere? 

Sul Recovery plan abbiamo perso sull’ultimo metro nel trilogo con il Consiglio e la Commissione, nonostante il forte impegno dell’europarlamento. Ora saranno i Paesi a dover rendere le valutazioni vincolanti. In compenso abbiamo vinto sul quadro finanziario pluriennale: nel bilancio regolare settennale dell’Ue è stata inserita una clausola che obbliga la Commissione ad approvare una metodologia per i bilanci di genere e ad applicarla a partire dal 2023. Per ora vale solo per i fondi gestiti dalla Commissione, ma la direzione è giusta. 

“Per far ripartire l’economia non dobbiamo puntare sulle infrastrutture, ma sull’occupazione femminile”

In cosa consiste nel concreto una valutazione di impatto di genere?

Facciamo l’esempio dei trasporti. Se decidessimo di investire i fondi del Recovery plan per migliorare la mobilità, discuteremmo di autostrade, ponti e alta velocità, coinvolgendo le imprese interessate e le camere di commercio. Ma se per stanziare questi investimenti passassimo attraverso un bilancio di genere che coinvolga cittadine e cittadini di diverse età, avremmo un processo di partecipazione molto più rappresentativo. Laddove questo modus operandi è già stato adottato, alla fine si è deciso di destinare più risorse ai mezzi pubblici e all’ampliamento dei marciapiedi perché si è scoperto che le donne usano meno l’automobile e hanno bisogno di più spazio per camminare con i passeggini o gli anziani sulla sedia a rotelle. I Comuni che hanno attuato questo percorso, ora hanno un aspetto diverso.

Sta dicendo che la valutazione di impatto di genere è una sorta di cartina tornasole per l’intera città?

Non solo: permette di scoprire ingiustizie. In Germania, per esempio, si è scoperto che il 70 per cento dei finanziamenti comunali per lo sport andavano ad attività sportive praticate in prevalenza da ragazzi e uomini. Eppure sappiamo che sono soprattutto le ragazze più povere, che spesso vengono da famiglie emigrate, a fare poco sport e ad avere quindi maggiori problemi di salute. Prima di questa valutazione si credeva che la colpa era dei genitori islamici e conservatori che impedivano loro di fare sport. Ora sappiamo che il problema è che, mentre il calcio costa 100 euro all’anno, per la danza classica servono 60 euro al mese.

A remare contro queste valutazioni è stata la Commissione, che pure è guidata da una donna (la prima nella storia dell’Ue) che è stata anche ministra della Famiglia in Germania. Come mai?

Me lo chiedo anche io. Ursula von der Leyen è stata un’ottima ministra della Famiglia. È grazie a lei se dopo tanti anni sono rientrata in Germania: prima i servizi per l’infanzia erano pessimi a confronto con il nord Italia dove all’epoca vivevo. Il problema è che le politiche di genere continuano a rimanere nell’angolo, relegate a temi come i nidi o i centri antiviolenza, mentre i settori dove si concentra il potere, come economia e digitale, sono in mano agli uomini. Fino ad oggi la battaglia si è concentrata sui diritti civili ed è stato fondamentale. Ma ora dobbiamo prenderci la metà di potere che ci spetta. Non è solo una questione di uguaglianza o giustizia sociale: decine di studi dimostrano che se vogliamo far ripartire l’economia non dobbiamo puntare sulle infrastrutture, ma sull’occupazione femminile.

C'è ancora bisogno di femminismo

L’attuale commissario europeo all’economia è l’ex primo ministro italiano Paolo Gentiloni. Che posizione ha preso in merito?

Gentiloni mi ha personalmente detto di essere favorevole delle valutazioni di impatto di genere, ma in molti sono contrari solo perché non sono in grado di realizzarle. A volte è proprio una questione di ignoranza. 

L'indice di uguaglianza di genere dell'Ue è di 67,9 (su 100), 63,5 in Italia. Con un miglioramento di mezzo punto l'anno, l'Ue raggiungerà la parità in 60 anni
European institute for gender equality, rapporto Gender equality index 2020

Lei crede nelle quote rosa?

Credo che un numero fisso di donne porti a una maggiore qualità della partecipazione femminile. Non certo perché le donne siano di per sé più brave, ma perché quando c’è una quota rilevante di donne, cambiano i meccanismi di interazione, sia in termini di qualità sia di contenuto. E questo non succede se c’è una donna su nove uomini. Poi, di nuovo, non vedo perché non dovrebbe essere così: il 51 per cento della popolazione mondiale è donna, siamo pure modeste ad accontentarci del 50 per cento delle posizioni.

Quali altri scogli rimangono in Europa per raggiungere la parità di genere?

Manca una legge sulla trasparenza delle retribuzioni. Dopo la promessa di Ursula von der Leyen, a luglio 2019, di introdurre misure obbligatorie in merito, finalmente in Commissione c’è una proposta di direttiva. Fino a quando le imprese non dichiareranno quanto i dipendenti guadagnano in media nei vari reparti aziendali, continuerà a esserci chi sostiene che il divario nelle retribuzioni tra donne e uomini sia dovuto all’incapacità delle prime di contrattare. 

Lei fa parte del partito dei Verdi. Perché questa battaglia di genere è partita dagli ambientalisti?

A livello europeo i Verdi non si occupano solo di ecologia e anche per i Verdi tedeschi il movimento delle donne è da sempre una parte fondante. La parità di genere è una questione trasversale, che riguarda anche l’ambiente. Le donne, per esempio, subiscono più degli uomini le conseguenze del cambiamento climatico.

"Una società che segrega a seconda del genere fa male alle donne, ma anche agli uomini”

Cosa significa per lei oggi essere femminista?

Vuol dire chiedere gli stessi diritti per tutti, dare a ogni persona la possibilità di svilupparsi ed esprimersi liberamente, in base ai propri talenti e desideri. Una società che segrega le persone a seconda del genere, fa male alle donne, ma fa male anche agli uomini. Quanti giovani vorrebbero non solo far carriera ma essere padri? In una società femminista saremmo tutti più felici, uomini compresi.

Thanopulos: "Il potere maschile è dominio sessuale"

Le sue figlie riusciranno a vedere questo cambiamento?

Credo abbiano qualche possibilità in più, ma mi spaventa vedere quanto poco sia cambiato rispetto alla mia generazione. Sicuramente sul fronte delle libertà sessuali la situazione è molto migliorata, ma su altri, come la partecipazione al mercato del lavoro, si dà ancora per scontato che una donna dopo il primo figlio cominci a lavorare part-time. 

Lei è riuscita a portare avanti famiglia e carriera. Come ci è riuscita?

Francamente? Facendo una fatica incredibile. Per dieci anni ho dormito pochissimo perché lavoravo di notte. È stato proprio il ricordo di questa fatica che mi ha spinta a lanciare Half of it. All’inizio della pandemia ho parlato con moltissime donne che si sono ritrovate a casa in smartworking per far fronte alla chiusura di asili nido e scuole. In quel momento, mi sono fisicamente ricordata di quella fatica e della sensazione di non fare mai le cose bene, né con le mie figlie né sul lavoro. E mi sono detta: non è giusto continuare a fare tutta questa fatica in più.

Da lavialibera n° 7 2021

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