7 marzo 2020
“I beni confiscati sono beni critici”. Così li definisce il prefetto Bruno Frattasi, da tredici mesi alla guida dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc), l’ente che provvede all'amministrazione e alla destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie. “Ci sono occupazioni illecite, ricorsi alla giustizia amministrativa, atti vandalici, però ogni volta che un bene diventa – ad esempio – uno spazio per associazioni che aiutano i giovani autistici, come la villa dei Casamonica che poche settimane fa è diventata uno spazio polifunzionale, è sempre un successo. Dietro comunque ci sono grande fatica e molto tempo”.
Prefetto, qual è il bilancio di questo primo anno?
È un bilancio positivo. Dal punto di vista personale mi arricchisce umanamente e mi appaga, ma le difficoltà restano quelle di sempre. L'Agenzia è una struttura ancora fragile, non abbiamo ancora i 200 posti previsti dalla legge del 2017, ma abbiamo comunque realizzato alcune pratiche con successo, come l’accordo per l'assegnazione della tenuta di Suvignano (confiscata a un imprenditore legato a Cosa nostra, ndr) alla Regione Toscana. Nel corso del 2019 abbiamo devoluto quasi un migliaio di beni e circa il 53 percento di quelli messi a disposizione dei comuni sono stati optati dalle amministrazioni.
Resta quindi ancora un problema la scarsità di risorse umane?
Stiamo facendo passi avanti. Sono grato al ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, perché nella legge di bilancio 2020, accogliendo la nostra proposta, ha fatto in modo che l’Agenzia potesse disporre di proprie risorse per stabilizzare e inquadrare il personale da anni operativo nell'ente e per la mobilità di dipendenti di altre amministrazioni che vogliono lavorare con noi.
C’è in ballo anche un concorso per l’assunzione di settanta persone. A che punto è?
Se ne sta occupando il dipartimento per la Funzione pubblica. Speriamo che arrivino presto novità.
Per quanto riguarda la destinazione dei beni confiscati, cosa è stato fatto?
Abbiamo finalmente avviato la strategia nazionale di valorizzazione dei beni confiscati. Abbiamo già individuato alcuni beni “esemplari” per storia criminale, per il passato che li ha contrassegnati oppure per il contesto in cui si trovano, dove possono creare un indotto positivo, favorire l’occupazione, il recupero di persone svantaggiate e l’inclusione sociale.
Ci può raccontare un caso?
Ci siamo concentrati sulla “Balzana”, una tenuta che apparteneva al clan dei Casalesi. Oggi è stata assegnata a un consorzio pubblico, “Agrorinasce”, e costituirà un parco agroalimentare dei prodotti tipici campani e un progetto ambizioso di formazione dei giovani nell’imprenditoria agricola. Ci sono importanti iniziative che prendono corpo.
Prima che un bene confiscato a un mafioso arrivi alla società civile, però, passa un periodo lunghissimo.
La destinazione dei beni è un’attività che richiede grande capacità di intessitura e pazienza nel seguire le vicende di questi beni. Mettere insieme intorno a un tavolo regioni, comuni e soggetti istituzionali comporta un tenace lavoro che va condotto con capacità di ascolto e di diplomazia. I risultati non sono immediati. Bisogna accelerare e stiamo lavorando affinché il processo avvenga più velocemente. La materia è complessa, bisogna trovare risorse, capacità progettuali e competenze di cui non tutte le amministrazioni dispongono. E anche la società civile non è sempre pronta alla sollecitazione dell’Agenzia o dei governi locali. In più c’è il problema delle risorse finanziarie: un bene complesso come Palazzo Fienga (roccaforte del clan Gionta, ndr) a Torre Annunziata richiede una decina di milioni di euro per essere ristrutturato e per un comune è un’impresa titanica, ragione per cui bisogna fare ricorso a risorse esterne. Il tavolo di coordinamento nazionale deve individuare le fonti di finanziamento, come i fondi della coesione e sviluppo, la cui responsabilità è del ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano.
Uno dei suoi obiettivi, illustrati in Commissione antimafia, è rendere più agevole l’assegnazione diretta alle associazioni. A che punto siete?
È una possibilità prevista dal codice antimafia e vorrei che diventasse una cosa concreta. Stiamo pensando di definire i criteri per un bando di prossima emanazione in cui individueremo dei beni da sottoporre all’attenzione delle associazioni. Potranno candidarsi con progetti sostenibili per utilizzare quel bene per un periodo adeguato e con le giuste risorse.
Parliamo della vendita, oggetto di discussione. Qual è la situazione?
Noi non abbiamo venduto niente. Il codice antimafia prevede la vendita per i beni aziendali confiscati. Le aziende, quando non sono date in affitto o gestite dalle cooperative di dipendenti, sono destinate al mercato. Bisognerebbe occuparsi del tema delle infiltrazioni mafiose alla vendita e noi lo facciamo. In altri casi i beni devono essere alienati per risarcire le vittime o per pagare i creditori: i giudici, quando stabiliscono la confisca, devono verificare se ci siano dei creditori a cui spettano dei soldi. Questo caso non va considerato come un fallimento del processo di assegnazione, ma una necessità di legge.
A proposito di aziende, a volte in passato sono sorte polemiche sul fatto che molte aziende confiscate falliscono.
Noi stiamo cercando di dare una mano alle imprese produttive e in alcuni casi siamo riusciti a farlo in maniera soddisfacente.
Un esempio?
La Geotrans, un’impresa di trasporti sottratta agli Ercolano, una famiglia mafiosa catanese. Stiamo collaborando con Cooperazione Finanza e Impresa (ente del ministero dello Sviluppo economico, ndr) per un aiuto economico alla cooperativa di lavoratori che proseguirà l’attività. Se le aziende confiscate perdono valore è perché perdono quei vantaggi illegali sulla concorrenza come il mancato versamento dei contributi o l’accesso a linee di credito illecite. Senza l’ombrello protettivo delle mafie queste imprese vanno in difficoltà e rischiano di chiusura. Però si deve fare una valutazione sulla continuità aziendale.
Il riutilizzo dei beni sociali ha sempre avuto una grande importanza simbolica. Possiamo dire che oggi la destinazione dei beni confiscati a scopi sociali è entrata in una fase diversa, in cui assume anche un certo rilievo dal punto di vista economico?
Non so dire se siamo nella fase due. Però penso questo: scacciare il nemico dal luogo in cui era e sostituirlo con la società civile significa affermare che la società civile sostenuta dallo Stato è più forte della mafia. Questo è un unicum del nostro Paese e l’Unione europea lo indica agli altri Paesi come un fine a cui indirizzare i loro sistemi, per questo dobbiamo essere consapevoli che forniamo un modello agli altri.
Ci sono casi di Stati che studiano il modello italiano?
Abbiamo avuto incontri coi colleghi ucraini, a maggio sono stato nella sede delle Nazioni unite di Vienna per una conferenza con altri colleghi di agenzie europee e non con cui abbiamo scambiato opinioni. Abbiamo contatti con l’agenzia francese per stabilire l'utilizzo di un bene confiscato dall’Italia a Parigi. Stiamo facendo conoscere la nostra realtà anche fuori dai confini.
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