3 maggio 2021
La pandemia ha gravato anche sui media italiani, già segnati da scarsi investimenti e tanto precariato. In Italia il Covid-19 ha avuto un triplice impatto sul mondo dell'informazione, come documenta Media for democracy monitor 2020, ricerca internazionale che ha preso in esame e comparato l'esperienza di giornalisti e giornaliste in diciotto Paesi. La comunicazione istituzionale ha dettato l'agenda dei giornali: la percezione dei rischi della pandemia è stata influenzata da una routine informativa creata e controllata dal governo, a cui i media si sono adattati. Gli esperti di riferimento di ogni testata hanno contribuito a polarizzare il dibattito.
Gli introiti derivanti dalla vendita di spazi inserzionistici sono calati di circa il 30-50 per cento
Lo smart working ha imposto nuove sfide alle redazioni. L'altra faccia della medaglia è che, in Italia come nel resto dei Paesi considerati, il «giornalismo ha aumentato il proprio livello di credito e fiducia tra i cittadini»: le persone hanno riconosciuto e premiato le informazioni affidabili. Forse c’è speranza. Anche se il modello di business basato sulla pubblicità, già in crisi, ha subito un tracollo: si stima che gli introiti derivanti dalla vendita di spazi inserzionistici siano calati di circa il 30-50 per cento, a seconda degli Stati. Centinaia di testate hanno chiuso i battenti, o hanno continuato le pubblicazioni solo online.
Tra i precari, c'è un'alta proporzione di giornaliste
Incertezza sul futuro e crescenti pressioni sono esperienze comuni. Lo studio evidenzia soprattutto come i giornalisti lavorino tanto, siano pagati poco e nel migliore dei casi abbiano contratti precari (ma spesso non li hanno affatto). Sulla carta l’Italia eccelle per organismi di controllo e salvaguardia dell’etica dell’informazione, ma la realtà è diversa. Due sono gli aspetti peculiari. Uno riguarda il divario Nord-Sud: chi lavora nel Meridione si trova in condizioni peggiori. L'altro la forbice tra uomini e donne: tra i precari, c'è un'alta proporzione di giornaliste. Christian Ruggiero, professore dell'università La Sapienza e uno degli autori della ricerca, segnala anche «un utilizzo intensivo di freelance e contratti di collaborazione», tanto che qualcuno usa la definizione di «rider dell'informazione». Un aspetto che ci fa piazzare agli ultimi posti della classifica degli Stati analizzati se si guarda alla sicurezza del lavoro.
Covid, perché le donne stanno pagando un prezzo più alto
Tutto ciò ha ricadute sulla qualità del prodotto, in particolar modo sul giornalismo d'inchiesta. Nel nostro Paese pesa anche il fatto che «il giornalismo investigativo non abbia una reale tradizione e non sia mai stato sviluppato», ma il fattore decisivo è il mercato: un contesto «in cui la sopravvivenza stessa dei media è dubbia» e che rende difficile investire risorse in questa attività, considerata «molto costosa». Di conseguenza, rimane una «nicchia all'interno della routine di lavoro delle redazioni», dove non sono state «codificate delle regole precise per condurla». Anche se va detto che esistono «poche positive eccezioni»: giornalisti e fotoreporter che collaborano con le istituzioni europee, spesso minacciati.
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