Nel sempre crescente calderone dei lavori precari è finito anche il giornalismo. Difficile individuare il momento preciso in cui una delle professioni più prestigiose si è ritrovata nella polvere dell’incertezza lavorativa. Probabilmente si è trattato di un lento ma inesorabile scivolamento. I numeri attuali, però, non lasciano spazio a interpretazioni. Secondo l’Inps, in Italia operano circa 45 mila giornalisti con contratto atipico o liberi professionisti, a fronte di appena 15 mila coperti da un contratto di lavoro dipendente (dati 2019). E tra i freelance, il 45% non riesce a fatturare 5000 euro lordi l’anno. D’altra parte, anche molti giornali storici hanno tagliato i compensi dei redattori, arrivando a proporre 7 euro per un articolo. Ma sul web la cifra scende ancora. Una foto impietosa, che fa dei giornalisti dei veri rider dell’informazione e che mostra tutta la debolezza della Carta di Firenze, dedicata proprio alla deontologia del giornalismo precario ma rimasta lettera morta. Ma sono solo i diretti interessati a fare le spese di questa sconfitta? No, per niente. Nel declino finisce tutto l’ecosistema dell’informazione, lettori compresi. Perché un giornalista precario è costretto a preoccuparsi più della quantità che della qualità di ciò che scrive; è più facilmente preda di interessi esterni; è più spesso vittima di minacce e intimidazioni. Il giornalismo precario, quindi, è un problema anche per il diritto di sapere di chiunque e per la libertà di informazione.