21 maggio 2024
Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Andrea Rocchelli, il fotoreporter di Pavia ucciso nel 2014 nel Donbass da un colpo di mortaio esploso dall’esercito ucraino, ma sembra che oggi solo in pochi vogliano ricordare questa storia. C’è stato un processo, una condanna e un’assoluzione; sono state proposte ricostruzioni fantasiose, utilizzate parole inappropriate e, soprattutto, è stata semplificata una vicenda complessa che meritava più attenzione.
Il 24 maggio 2014 insieme a Rocchelli perse la vita l'attivista per i diritti umani Andrej Mironov, mentre rimasero feriti il fotoreporter francese William Roguelon e l'autista che aveva accompagnato il gruppo.
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La maggior parte dei media ha dato in pasto all’opinione pubblica un racconto distorto del processo, dove l’imputato Vitalij Markiv – all’epoca dei fatti un soldato semplice, poi diventato vice-comandante della Guardia nazionale ucraina – nel luglio 2019 è stato condannato a 24 anni dalla Corte d’assise di Pavia per concorso nell’omicidio di Rocchelli. Un anno dopo, nel processo di secondo grado tenutosi a Milano, Markiv è stato assolto, decisione confermata nel dicembre 2021 dalla Corte di Cassazione.
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“I media hanno fatto passare questa assoluzione come un errore giudiziario sanato – spiega a lavialibera Elisa Signori, madre di Andrea Rocchelli – ma in realtà le motivazioni della sentenza di secondo grado hanno ribadito che si è trattato di un crimine di guerra e confermato le responsabilità dell’esercito e della Guardia nazionale ucraini. Anche se in pochi ne parlano, Markiv è stato scagionato per un difetto procedurale emerso al processo d’appello. D’altronde siamo in uno Stato di diritto che prevede molte garanzie pro reo: in questo caso hanno funzionato per mandare a casa il miliziano”.
Suo figlio non c’è più da dieci anni. Ha trovato un po’ di giustizia?
Andrea e Mironov non sono stati uccisi dal fuoco incrociato e neppure da un cecchino. È stato un attacco durato circa 40 minuti, monitorato dall’alto in modo da aggiustare il tiro e non fallire il bersaglio. Dieci anni dopo non abbiamo condanne e il delitto è impunito seppure siano state accertate le colpe dell’Ucraina. Purtroppo non c’è mai stata la reale volontà dell’Italia di chiedere verità e giustizia a un paese che per giunta reputiamo amico.
È stato un attacco durato circa 40 minuti, monitorato dall’alto in modo da aggiustare il tiro e non fallire il bersaglio
Dopo la morte di Andrea sono state dette e scritte molte cose, ad esempio che era un “amico" dei russi.
Nel 2014 mio figlio decise di recarsi nel Donbass perché aveva intuito che non era in corso una semplice scaramuccia, ma si trattava del prologo della guerra scoppiata due anni fa. Non era schierato, il suo impegno era fotografare i civili, il dramma della gente comune. E non era certamente pro Russia, tant’è che a Kiev aveva lavorato al crowfunding per una ong italiana, Soleterre, che si occupava di bambini malati oncologici.
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I nomi e i volti di Andrea e Mironov figurano ancora sul sito ucraino Myrotvorec' – un database contro i sostenitori della causa separatista filo-russa – accompagnati dalla scritta in rosso “liquidati”.
In quella black list ci finiscono molte persone, compresi alcuni giornalisti che hanno lavorato in Ucraina. Mio figlio e Mironov erano schedati come terroristi.
Crede sia stato un attacco premeditato?
Non posso dirlo, le ipotesi sono molte, hanno sparato anche ad altri giornalisti in Ucraina. Di sicuro è stato un attacco preciso e accanito. La cronaca di quei giorni può aiutare a capire il contesto in cui è avvenuto l’omicidio. Gran parte del Donbass era in mano alle forze separatiste filo-russe e l’esercito ucraino era impegnato in un’azione di riconquista del territorio. Mio figlio è stato ucciso il giorno prima delle elezioni, in quel frangente nessuno risparmiava i colpi, per gli ucraini era fondamentale riprendersi al più presto Donetsk.
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Il processo di primo grado si è aperto a Pavia nel 2018, ha sentito la vicinanza delle istituzioni italiane?
La politica è rimasta fuori dal processo, come è giusto che sia. Poi però, terminato il cammino giudiziario, mi sarei aspettata che l’Italia prendesse una posizione netta per l’uccisione di un suo cittadino inerme. L’amicizia che il nostro governo conferma in ogni occasione all’Ucraina, anche attraverso aiuti economici, richiederebbe un atteggiamento fermo nel chiedere giustizia per quello che la stessa magistratura italiana ha definito un crimine di guerra. Il governo, però, non sembra averne preso atto.
Cos’é cambiato con l’invasione russa in Ucraina?
La storia di Andrea é finita in un cono d’ombra. Oggi è scomodo dire che a ucciderlo è stato l’esercito ucraino.
L’amicizia che il nostro governo conferma in ogni occasione all’Ucraina richiederebbe un atteggiamento fermo nel chiedere giustizia
Nel 2014 Andrea aveva capito che il conflitto in Donbass era solo l’inizio di una storia che continua. Cosa pensa della “nuova” guerra?
In Ucraina, fra le altre cose, si sta consumando una strage della giovane popolazione maschile. Sia i soldati russi sia quelli ucraini vengono mandati al macello nei rispettivi eserciti. È un grande falò dove a bruciare sono risorse umane.
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Due anni dopo la morte di suo figlio è stata ritrovata una scheda di memoria che conserva gli ultimi scatti di Andrea. Cos’ha provato quando ha visto quelle fotografie?
È successo quando gli amici del collettivo Cesura hanno deciso di realizzare una teca dove conservare la sua macchina fotografica. Ho visto le immagini e ho avuto conferma di quanto fosse forte la vocazione di mio figlio per l’uso del linguaggio fotografico. Noi genitori ce ne siamo accorti un po’ per volta, più che un mestiere per Andrea era una scelta esistenziale. E queste fotografie eccezionali, scattate poco prima di essere colpito insieme ai suoi compagni nel fossato in cui si erano rifugiati, ne sono la prova. Forse è stata un’infermiera dell’obitorio a togliere la scheda dalla macchina fotografica e riporla in un'intercapedine nascosta della custodia, voglio pensare in modo compassionevole. Poteva distruggerla ma non l’ha fatto. Andrea ha fotografato fino all’ultimo, sapeva che sarebbe morto ma non ha mai smesso di raccontare la verità.
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