3 maggio 2024
Controllo del governo sul servizio pubblico, legge bavaglio, querele temerarie, intimidazioni e violenze verso i giornalisti: in Italia, come in altri paesi europei, “la libertà di stampa e il pluralismo dei media sono vicini a un punto di rottura”. È quanto emerge dal Media freedom report 2024 dell'Unione delle libertà civili per l'Europa (Liberties), una coalizione di 20 organizzazioni non governative tra cui le italiane Antigone e Cild (Coalizione italiana libertà e diritti civili). Lo conferma anche Reporter Senza Frontiere, che oggi, giornata mondiale della libertà della stampa, ha pubblicato la versione aggiornata della sua classifica, che prende in considerazione il clima politico, la sicurezza dei giornalisti, il quadro legislativo, le condizioni economiche e il contesto socio-culturale: il nostro Paese si colloca al 46esimo posto a livello mondiale, con una perdita di cinque posizioni rispetto all'anno scorso, e al 19esimo posto su 27 in Unione europea, unico tra i fondatori ad essere classificato nella fascia "problematica".
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In Italia, come in altri paesi europei, "la libertà di stampa e il pluralismo dei media sono vicini a un punto di rottura"
Il rapporto di Liberties cita “preoccupazioni crescenti riguardo all’influenza del governo italiano sul servizio pubblico”, in particolare i “significativi cambiamenti organizzativi interni” impressi dall’esecutivo Meloni alla Rai subito dopo l’insediamento e il conseguente “slittamento editoriale verso posizioni decisamente più in linea con quelle della maggioranza”. Lo mostrano gli ultimi episodi, dalla cancellazione del monologo di Antonio Scurati in occasione del 25 aprile agli attacchi del governo contro Report. Domenica scorsa, dal palco di Pescara dove ha annunciato la propria candidatura alle prossime europee, Giorgia Meloni si è scagliata contro l’inchiesta della trasmissione sull’accordo Italia-Albania per la costruzione di centri di detenzione per migranti.
“Viviamo in un Paese in cui la presidente del Consiglio preferisce solidarizzare con un premier straniero che chiama i dirigenti Rai per lamentarsi di un’inchiesta”, commenta a lavialibera Vittorio di Trapani, presidente della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi). Lo scorso novembre, il conduttore della trasmissione di Rai 3 Sigfrido Ranucci era stato convocato dalla Commissione di vigilanza Rai su richiesta della maggioranza. Completa il quadro la decisione del governo, già denunciata da Fnsi, di tagliare le risorse destinate a viale Mazzini, scelta che, denuncia il rapporto Liberties, “minaccia ulteriormente l’autonomia finanziaria della Rai”. Per questo, l’Unione sindacale dei giornalisti Rai (Usigrai) ha indetto uno sciopero per il prossimo 6 maggio, citando tra le motivazioni “il controllo asfissiante sul lavoro giornalistico” e “il tentativo di ridurre la Rai a megafono del governo”.
Ma preoccupa anche la trattativa con cui Eni, società controllata dallo Stato, starebbe cercando di vendere l’Agi, seconda agenzia di stampa in Italia, ad Antonio Angelucci, deputato della Lega e proprietario dei quotidiani Libero, Il Tempo e Il Giornale. Un’ipotesi che “fa impallidire qualunque idea di conflitto di interessi che abbiamo denunciato negli ultimi anni”, dice di Trapani.
Il rapporto Liberties pone l’Italia sotto osservazione anche per “l’aumento delle cause intentate da personalità politiche per colpire chi critica il governo”. Sono le cosiddette slapp (“strategic lawsuits against public participation”, cause strategiche contro la partecipazione pubblica), acronimo che richiama la parola “schiaffo” in inglese. In italiano si parla di querele bavaglio o temerarie: azioni legali con scarse possibilità di successo che personalità pubbliche o aziende oggetto di critiche e inchieste giornalistiche intentano semplicemente per intimorire i querelati e scoraggiare altri dal seguire il loro esempio.
Querele temerarie, l'informazione sotto scacco
Secondo uno studio commissionato dal Parlamento europeo, l’Italia è al primo posto nell’Unione per numero di slapp aperte nel 2022 e 2023: più di un quarto delle querele bavaglio registrate in tutta l’Ue arrivano dal nostro Paese. Lo scorso febbraio, l’europarlamento ha approvato a larghissima maggioranza la “direttiva anti-slapp”, che prevede una serie di garanzie per giornalisti e attivisti oggetto di querele temerarie. Ad aprile, poi, il Consiglio d’Europa ha emanato una raccomandazione in cui chiede agli Stati membri di adottare misure concrete per contrastare questo fenomeno.
"Invece di valorizzare il giornalismo d'inchiesta, si mette sotto inchiesta il giornalismo, e con lui il diritto dei cittadini a essere informati"Vittorio di Trapani - Presidente Fnsi
A subire lo “schiaffo” è stato, tra gli altri, il quotidiano Domani, querelato prima da Giorgia Meloni quand’era ancora parlamentare, poi dal sottosegretario al lavoro Claudio Durigon, della Lega. Il direttore Emiliano Fittipaldi è stato anche convocato in Commissione antimafia per l’inchiesta sul presunto conflitto d’interessi che coinvolge il ministro Crosetto. “Invece di valorizzare il giornalismo d’inchiesta, si mette sotto inchiesta il giornalismo, e con lui il diritto dei cittadini ad essere informati”, continua di Trapani. A completare il quadro, lo scorso febbraio il parlamento italiano ha approvato la legge di delegazione europea che contiene la cosiddetta “norma bavaglio”: un articolo, introdotto dal deputato di Azione Enrico Costa, che delega il governo a inserire nel codice penale il divieto per i giornalisti di citare ordinanze di custodia cautelare prima della conclusione delle indagini preliminari. E la proposta, attualmente in discussione in Commissione giustizia al Senato, di inasprire le pene per diffamazione a mezzo stampa, arrivando addirittura al carcere per i giornalisti. Così “si antepone il diritto alla reputazione alla libertà di espressione”, denuncia Liberties.
Il parlamento vota il bavaglio ma tace sulle querele intimidatorie
La proprietà dei media è concentrata nelle mani di poche aziende o privati. Questo condanna l’informazione di molti Paesi a una mancanza di pluralismo e soffoca i media indipendenti, compromettendo un caposaldo fondamentale della democrazia. Il caso dell’Ungheria è emblematico: i mezzi di informazione sono ancora sotto il controllo di pochi legati al governo di Viktor Orban da finanziamenti diretti. Un contesto simile si osserva anche in Polonia e in Croazia, mentre la Repubblica Ceca argina il fenomeno varando una legge che impedisce ai politici di possedere società di media.
L’allocazione delle spese pubblicitarie statali è una risorsa per sovvenzionare i media che hanno subito cali significativi di entrate e abbonamenti, ma dovrebbe avvenire in maniera indiscriminata e trasparente. Mentre in Ungheria i finanziamenti dello Stato finiscono segretamente nelle casse dei media filo-governativi, ignorando quelli indipendenti, la Lituania ha stabilito un fondo statale destinato a progetti mediatici, assegnati attraverso procedure di gara imparziali.
I servizi pubblici d’informazione dovrebbero offrire una copertura mediatica oggettiva e promuovere il dibattito pubblico. Questa funzione è compromessa in Paesi come Ungheria e Croazia, oltre che Italia, in cui il governo si infiltra nel campo dell’informazione e ne prende le redini. Un caso felice è quello della Polonia: il nuovo governo di Donald Tusk è intervenuto per allontanare il servizio pubblico da ingerenze politiche.
Restrizioni alla libertà di espressione e forme di censura sono un problema in molti Stati membri dell’Ue, in particolare in Bulgaria, Croazia, Estonia, Grecia, Ungheria, Irlanda e Italia. In Croazia si sono verificati diversi casi di ostruzione al lavoro dei giornalisti, a cui è stato negato l’accredito per eventi di interesse pubblico. Non è un caso isolato; anche in Germania, Ungheria, Lituania e Paesi Bassi, i governi continuano a bloccare ai giornalisti l’accesso a documenti o eventi di pubblica utilità.
A fronte di tutto ciò, il livello di fiducia del pubblico nei mezzi di informazione è molto basso, in particolare in Repubblica Ceca, Estonia, Germania e Ungheria, a cui si aggiungono Francia e Grecia. La consapevolezza allarmante è che il declino della libertà dei mezzi di informazione in Europa è direttamente proporzionale al suo arretramento democratico.
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"Ci stiamo avvicinando progressivamente all'Ungheria di Orban. I giornalisti vengono attaccati perché sono mediatori, impediscono il rapporto diretto tra capo e popolo"Giuseppe Giulietti - Coordinatore Articolo 21
“Ci stiamo avvicinando progressivamente all’Ungheria di Orban”, commenta Giuseppe Giulietti, coordinatore dell’associazione Articolo 21. “Queste mosse sono funzionali al progetto di una Repubblica senza poteri di controllo. I giornalisti sono nel mirino perché sono mediatori, impediscono il rapporto diretto tra capo e popolo”. Concorda Vittorio di Trapani: “Le restrizioni al diritto di cronaca e il controllo del governo sul servizio pubblico non iniziano di certo con il governo Meloni, ma ora stiamo assistendo a un preoccupante salto di qualità”. Per questo “auspichiamo una luce accesa da parte delle istituzioni europee e internazionali”, continua il presidente della Fnsi, ma anche “una risposta compatta e unitaria da parte di tutte quelle realtà della società civile che difendono i diritti e le libertà. Gli attacchi alla stampa non riguardano solo i giornalisti. Toccano i principi costituzionali, che appartengono a tutti i cittadini”.
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