14 febbraio 2022
A differenza di altri eventi che, simili a un trauma, si incidono indelebilmente tanto nella memoria individuale quanto in quella collettiva, pochi serbano memoria della data che rappresenta uno spartiacque della storia italiana. Il 17 febbraio 1992 prese avvio lo smottamento che avrebbe condotto al crollo della cosiddetta “prima repubblica”, con il suo corredo di leader e partiti politici dalla presa sul potere in apparenza granitica, ma in realtà già corrosi dall’interno. Quel giorno a Milano l’arresto per concussione – in flagranza di reato – di Mario Chiesa, presidente di fede socialista di un ospizio pubblico, il Pio Alberto Trivulzio, suscitò un’attenzione circoscritta e fugace.
La tangente da 7 milioni di lire (3500 euro appena) “tracciata” dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, grazie alla segnalazione del titolare di una ditta di pulizie Luca Magni, rappresentava la metà esatta del dovuto, secondo l’inderogabile “legge” del 10 per cento sul controvalore dell’appalto di servizi da 140 milioni. Una regola applicata, ma non inventata da Chiesa, da anni già vigente in ogni ente pubblico milanese. Narra la leggenda che un Chiesa scosso ma ancora lucido abbia approfittato di una visita in bagno concessagli dai carabinieri per far scomparire nello scarico altri 37 milioni appena incassati. E che il termine “mani pulite” sia stato un’invenzione lessicale di Di Pietro per rendere appetibile a giornalisti e opinione pubblica un’operazione nata come “Mike Papa”, nomi in codice utilizzati dal magistrato e da un capitano dei carabinieri nelle loro comunicazioni, trascritti con le iniziali MP sui verbali. Un tocco da cronaca scandalistica venne assicurato dalla vendicativa ex moglie di Chiesa, alla quale quest’ultimo lesinava sull’assegno di mantenimento, che interrogata dal magistrato aprì ben altri scenari su reali entrate e depositi su conti svizzeri dell’ex-marito.
Gossip o – peggio ancora – teorie cospiratorie su un immaginario ruolo dei servizi segreti a parte, le inchieste di “mani pulite” furono innescate da una combinazione di eventi accidentali e di fattori favorevoli. Da un lato l’incidente di percorso di un politico rampante come Chiesa, che cullava la malcelata ambizione di diventare sindaco di Milano, prima dell’incontro sfortunato con un impresario in crisi, non in grado di sobbarcarsi il “prezzo della tangente” e perciò disposto a giocarsi il tutto per tutto con la carta della denuncia.
Dall’altra, l’assegnazione del fascicolo al sostituto procuratore Antonio Di Pietro. Questi aveva già trattato quei reati in altre indagini, affinando antenne sensibili alla natura seriale e sistemica dei fatti di corruzione incontrati. Nel maggio 1991 aveva pubblicato sul mensile milanese Società civile un piccolo saggio in cui coniava il termine dazione ambientale, descrivendola come “una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua”. Lo stesso Chiesa svelò poi “la regola tacita che la tangente avrebbe gravato su tutto, dalla grande opera alla più piccola fornitura. Non si discute nemmeno più di mazzette”. Confermò un suo collega di diversa parrocchia partitica: “Il meccanismo per il quale le imprese ci versavano il denaro era ormai talmente consolidato che non c'era più bisogno di chiedere. Ormai si sapeva bene che l'acquisizione di contratti comportava questi esborsi ed era automatico che una volta acquisito il contratto si pensasse a quantificare la somma da destinare ai partiti”.
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Di Pietro ideò l'espressione "dazione ambientale": "Una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto. Sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua"
Di Pietro riconobbe una smagliatura nella trama di collusioni, complicità e connivenze. Anziché scegliere la via sicura del processo per direttissima per quella specifica vicenda, lasciò Chiesa in cella a cuocere nel suo brodo per un paio di mesi. Nel frattempo convocò i fornitori del Trivulzio e con astuzie da ex-poliziotto, combinando il bluff sulle sue reali conoscenze, il bastone dello spettro della carcerazione preventiva, la carota della qualifica di un reato di concussione – che rendeva gli impresari vittime, dunque impuniti – riuscì a vincere paure e resistenze.
Finché lo stesso Chiesa, nel frattempo scaricato dai vertici del proprio partito, preoccupati per la campagna elettorale delle politiche di aprile, iniziò a parlare. La crepa nella diga dell’omertà si fece evidente, e la percezione di un crollo imminente accelerò la corsa a confessare. Il vecchio cemento delle appartenenze e dei tradizionali potentati partitici, col suo potere di ricatto incrociato, perse la sua presa, sgretolandosi nell’arco di poche settimane. Se ne sarebbe accorto il leader socialista Bettino Craxi in un drammatico discorso alla Camera dei Deputati, il 3 luglio di quello stesso anno, inutile chiamata alla armi di un esercito già in rotta:
“Ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. (…) Non credo che ci sia nessuno in quest’aula (…) che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”
Nell’impotenza di una classe politica delegittimata e paralizzata, gli indagati iniziarono a salire di livello, dall’iniziale focolaio milanese fino ai vertici nazionali, mentre per “gemmazione” altre inchieste venivano avviate pressoché in ogni città da magistrati ormai acclamati come eroi popolari. Un passaggio ricorrente nelle richieste di autorizzazione a procedere milanesi spiega la natura di questo meccanismo propulsivo ascensionale: “Tali somme solo in parte – e non sempre – venivano trattenute da coloro che le avevano richieste o comunque ricevute, più spesso venivano versate ad esponenti politici i quali (…) avevano o avrebbero successivamente svolto una funzione di garanzia”.
I centri di potere nazionali e locali che nei partiti regolavano e disciplinavano il sistematico circuito di tangenti che gravava su ogni investimento o spesa pubblica, infatti, incassavano una quota delle mazzette che a livello locale venivano pagate dai cartelli di imprenditori, a loro volta connotati da un’etichetta di affiliazione politica. Sia nel mondo delle imprese che in quello della politica funzioni e ruoli erano ben definiti e specializzati, con una divisione del lavoro tra collettori di tangenti, riciclatori, facilitatori, intermediari, riciclatori. Una quota di qualsiasi tangente, inclusa quella originaria da 7 milioni di lire destinata a Mario Chiesa, si sarebbe incanalata nei vasi comunicanti della corruzione verso i protettori politici, assicurando la stabilità degli equilibri di potere, il sostegno alle carriere e alle nomine, i finanziamenti delle campagne elettorali. Di qui l’effetto-valanga generato da “Mani pulite”: le confessioni incrociate colpirono proprio quei centri di potere che nei partiti erano l’architrave, cabina di regia e garanti del rispetto delle regole e dei patti della corruzione sistemica – inclusa la fino ad allora ferrea “legge dell’omertà”.
Pesarono nell’accelerazione progressiva dell’inchiesta alcune condizioni di contesto, capaci di accrescere la ricettività dei cittadini al valore simbolico dell’inchiesta e di depotenziare le vecchie barriere protettive a tutela della classe politica. Basti pensare al progressivo “scongelamento” ideologico dell’elettorato conseguente alla caduta del muro di Berlino, che si tradusse nel consolidarsi – già nelle elezioni politiche dell’aprile 1992 – di nuovi credibili sfidanti ai partiti tradizionali, come la Lega Nord e la Rete. Al tempo stesso, il mordere della crisi economica e di bilancio, con un debito pubblico alle stelle, aveva accentuato il discredito verso la “vecchia” classe politica, determinando nel contempo frizioni nella ripartizione di una rendita della corruzione che inevitabilmente tendeva a restringersi.
Le condizioni per il corto circuito di “Mani pulite” erano innescate, l’effetto risultante fu il deflagrare della più vasta inchiesta per corruzione nella storia dei sistemi democratici: un bilancio del solo filone milanese descrive uno scenario con 4520 persone indagate, 1322 rinvii a giudizio (42,3% delle richieste), 620 condanne del Gup, 611 condanne nei successivi gradi di giudizio; a livello nazionale si contano circa 12mila persone indagate e 5 mila arresti, qualche centinaio di parlamentari, cinque ex presidenti del consiglio e decine di ex ministri coinvolti a vario titolo. Nonostante i molti procedimenti prescritti, le assoluzioni furono appena il 14,5 per cento, contro una media nazionale di oltre il 20 per cento. Significativamente, nelle successive elezioni politiche del 1994 si registrò quasi il 70%. di ricambio di parlamentari, il più alto nella storia d’Italia.
Porte girevoli e conflitto d'interessi, nessuna legge li vieta
“In Italia non hai scelta: o scendi a patti e paghi tangenti, oppure lo fa un altro al posto tuo (…) Il sistema tangenti è sistematico nei grandi lavori. Lì se vuoi entrare devi pagare”Un indagato dell'inchiesta sull'Expo 2015
Cosa rimane di “Mani pulite”, trent’anni dopo? Letta con chiavi interpretative contrapposte, si è fatta memoria collettiva schizofrenica: occasione mancata di una palingenesi civica contro una classe politica corrotta, oppure “golpe giudiziario” che ha cancellato un sistema partitico e leader che rappresentavano un presidio di democrazia. Di certo, nulla è più stato come prima, negli equilibri istituzionali così come nel rapporto tra cittadini e classe politica. Ne è testimonianza la perdurante convinzione delle radici profonde dell’italica corruzione: da decenni tutti i sondaggi mostrano che una maggioranza schiacciante di cittadini ritiene la corruzione diffusa “quanto o più che ai tempi di tangentopoli”. Ma l’effetto avverso della pressione delle inchieste di “Mani pulite” è stato anche lo sviluppo di una capacità “adattiva” e di apprendimento dei nuovi protagonisti della corruzione, capaci sempre più spesso di utilizzare tecniche e accorgimenti in forme e modalità tali da dissimulare pagamenti e contropartite – quando non riescono a piegare le stesse disposizioni normative al proprio tornaconto – vanificando così l’azione repressiva dei magistrati.
Da ultimo, retaggio di “Mani pulite” è la presa d’atto della sua unicità e irripetibilità. Le “varianti” contemporanee della corruzione italiana presentano di certo tratti comuni con lo scenario dei primi anni novanta. Suonano come un déjà vu le parole di un imprenditore coinvolto nell'inchiesta della procura di Milano sull'Expo, nel 2014: “In Italia non hai scelta: o scendi a patti e paghi tangenti, oppure lo fa un altro al posto tuo (…) Il sistema tangenti è sistematico nei grandi lavori. Lì se vuoi entrare devi pagare”.
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