3 maggio 2021
Doping: "pratica illegale che consiste nell’assunzione da parte di atleti o nella somministrazione agli stessi di droghe, sostanze eccitanti, farmaci (ammine simpaticomimetiche, analettici, anabolizzanti, ormone della crescita o GH ecc.), o nel ricorso a pratiche terapeutiche (per es. autoemotrasfusioni) rivolte a migliorare artificiosamente le prestazioni agonistiche" (dal vocabolario Treccani).
In 25 anni di sport da professionista (sono stata una maratoneta), non ho mai cercato il significato letterale della parola inglese doping. Ho sempre saputo che cosa fosse, cosa comportasse, anche perché molto familiare nel mondo sportivo e nelle chiacchiere da spogliatoio: "Sono quasi tutti dopati", "Ma secondo te quello/a si dopa?", "E tu? Ti sei mai dopata o almeno ci ha pensato?". No, e vale come risposta all’ultima domanda. Tante volte però mi sono chiesta perché un atleta, tanti atleti, invece sì. Cercherò in questa pagina di ragionare con voi, partendo da una storia personale, che non vuole essere di esempio, ma solo un punto di riflessione. Partiamo dal bello.
Ho mancato le Olimpiadi, il dolore è durato mesi, ma non ho mai pensato di alterare le mie prestazioni
Palla al centro, fischio di inizio. Cominci a fare sport agonistico per passione: è lei la vera linfa che tiene il motore acceso dal primo all’ultimo giorno. La passione mi ha permesso di correre a 13 anni i miei primi cinque chilometri e di resistere dopo 25 a chiudere gli ultimi 42. Scoprire di avere un talento nello sport può permetterti di farlo diventare un lavoro, forse il più bello del mondo (almeno per me), per nutrire e scorticare a fondo la tua vocazione agonistica e scoprire su quale vetta riesci ad arrivare, un passo dopo l’altro.
Che cosa serve? Un allenatore che ti ascolti e ti accompagni nella crescita, senza fretta; un contesto familiare che tifi senza invasioni di campo; un ambiente sportivo che educhi alle scelte. Come mangi, come riposi, quanto tempo riesci ad allenarti, come stai nelle cose. Puoi starci come capita, saltuariamente. Oppure scegliere che vale la pena provarci fino in fondo, mettersi in pista, su strada, dentro un campetto o in una piscina, e allenarti con dedizione, ogni giorno, per vedere davvero quanto sportivamente vali, senza sconti, senza trucchi. Accettare la sfida con sé stessi è la prima condizione per verificare il proprio talento. Misurarsi con i propri limiti, conoscerli, accettarli, provare a spostarli in avanti, con l’allenamento e con la passione, appunto.
È una partita che non dura una vita. Per i più fortunati, una ventina d’anni. Conosci le regole e tutte le carte: vinci, perdi, cadi, ti rialzi, ti infortuni, vuoi mollare ma poi riparti. Non c’è atleta che non abbia vissuto notti insonni per un obiettivo fallito, per un malanno inaspettato, per una medaglia sfumata. Fa parte del gioco. Sempre.
E allora perché uno si dopa? Provo a pensare a diverse opzioni. C’è chi non accetta il proprio limite e con le sostanze “giuste” mette il turbo, migliorando di molto le prestazioni. C’è chi associa il valore di scendere in campo solo alla vittoria: "Ho senso se vinco". Che poi vincere molti vantaggi in effetti li porta. Oltre il senso di onnipotenza che l’atleta vive per un lungo attimo dopo un successo, ci sono anche sponsor e ingaggi che lo gratificano. Infine, c'è chi lo fa perché "tanto lo fanno in tanti".
Della serie: quasi tutti rubano e allora rubo anch’io. Intere squadre sono state squalificate per questo e anche nomi illustrissimi. L’Antidoping – purtroppo – è costretta a rincorrere le sempre più moderne e camaleontiche possibilità di doping, che si affinano parimenti alla ricerca scientifica. Il doping è un reato. La rivoluzione culturale che potrebbe cambiare un pochino in meglio questo Paese nella lotta al crimine organizzato, alla corruzione, vale anche per chi bara nello sport. È quell’attitudine malata alla scorciatoia, al bluffare, alla prepotenza dell’ego, che avvelena non solo l’atleta stesso, in tutti i sensi, ma anche tutto il mare che ha intorno. E allora è importante lavorare con i giovani, dai primi anni della scuola, educandoli al movimento, al confronto, alla curiosità di scoprirsi, ma soprattutto alla grande bellezza della lealtà. Hai senso se ci provi fino in fondo, per come riesci. E nel viaggio puoi anche vincere, ma non è l’unico traguardo che conta.
Non ho mai avuto il pensiero di alterare le mie prestazioni. Ho mancato la partecipazione all’Olimpiade ed è stato un dolore emotivo presente per molti mesi. Ma mai per una volta ho pensato di chiedere aiuto altrove, oltre a me stessa. Non giudico chi nella vita sceglie di tradire il patto con la lealtà. Può capitare. Però mi ferisce profondamente. Perché un atleta non rappresenta solo sé stesso, ma anche i suoi tifosi e qualche volta, quando indossa la maglia azzurra, anche il proprio Paese.
Ai bambini e ai ragazzi vorrei dire: "Vali sempre, se vinci e se perdi. Bravo che sei arrivato fino in fondo. Continua così"
Bluffare, barare, riempirsi di farmaci – che hanno anche effetti collaterali pesanti e rischiosi – per vincere medaglie fasulle, con la speranza di non essere beccato, è l’altra faccia della medaglia, quella bruttissima, dello sport. Un atleta che si dopa ha perso il senso, la bussola, il valore etico che la sua disciplina rappresenta. Ma spesso non è solo, può essere mal consigliato, avere medici e allenatori complici nell’illecito. Uno dei tentativi che farei nella lotta culturale al doping è proprio un lavoro educativo che riguardi sì gli atleti, ma anche gli staff che girano loro intorno a tutti i livelli. E consegnerei, oltre alle medaglie, un attestato simbolico a tutti i bambini che si avvicinano alle prime gare: "Vali sempre, vali se vinci e vali se perdi. Bravo che sei arrivato fino in fondo. Continua così".
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