5 marzo 2021
Per superare i pregiudizi devi creare occasioni di incontro. Per esempio, a Palermo, quartiere Zen, dove si gioca una partita delicata e importante. E attraverso lo sport si sta costruendo la possibilità di vincerla, contro ogni discriminazione, esclusione sociale e razzismo. Ne parliamo con due infaticabili e appassionati testimoni: un educatore, Totò Cavalleri, e un ex atleta, Rachid Berradi, entrambi convinti che lo sport possa cambiare le cose.
Nel 2008 da un gruppo di persone che lavoravano allo Zen in un progetto di educativa di strada nasce Mediterraneo antirazzista. Dopo la partecipazione a Reggio Emilia ai campionati mondiali antirazzisti, decidono di organizzare qualcosa di simile anche a Palermo, pensando allo sport come strumento per abbattere frontiere e costruire diritti. Ogni anno, nel mese di giugno, viene organizzato un torneo di quattro giorni con 200 squadre, in rappresentanza di tutti i quartieri e le comunità della città: ragazzi del Gambia, della Guinea, dei campi rom si sfidano a calcio, basket, rugby, pallavolo, cricket. Una partecipazione allargata in tutti i sensi: dai bambini di cinque anni agli over 60.
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"Proviamo ad affrontare il pregiudizio e l’esclusione sociale costruendo dentro un campo sportivo, dove non importa da dove vieni, occasioni in cui i ragazzi si raccontano e incontrano – ci spiega Cavalleri che ci racconta un aneddoto eloquente –. Per spiegarmi che il problema del razzismo non era poi così forte, un giorno un assessore mi disse: se cammini per strada, non hai paura quando incontri un ragazzo di colore, ma la provi se ti imbatti in uno dello Zen". Qui a Palermo il concetto di quartiere ha un significato diverso. "I ragazzi non si percepiscono come abitanti della città, ma costruiscono la propria identità a partire dalla microcomunità di riferimento, con il rischio di identità chiuse, spesso legate a una via, in conflitto con quella vicina. L’obiettivo educativo è pensare il proprio quartiere non come mio ma come anche mio, non come una trincea, ma come una soglia". Lo sport è il pretesto per farlo.
Lo sport ha funzionato su di me. Diventando atleta professionista sono riuscito a trovare il mio senso. Vivendo in contesti difficili, lo sport ti protegge, ti allontana, non stai per strada"Rachid Berradi
"Ma per cambiare le cose devi avere continuità – sottolinea Cavalleri –. Così abbiamo strutturato altri micro eventi per restituire lo sport alla strada. Insieme alle associazioni cerchiamo di recuperare spazi abbandonati e campetti per dotare i quartieri di luoghi legati allo sport e alla socializzazione. Molti giovani cresciuti con noi sono diventati educatori e ora sono loro a gestire il torneo". Torneo a cui ha partecipato anche Rachid Berradi con i suoi ragazzi. Atleta professionista del Gruppo Sportivo Forestale fino al 2009, ha corso tanto e pure veloce. Campione nei diecimila metri, finalista olimpico a Sidney 2000, è stato da poco nominato Cavaliere della Repubblica da Sergio Mattarella "per la sua appassionata promozione di una cultura della legalità e per il contributo al contrasto all'emarginazione sociale". Nella sua seconda vita, Rachid è tornato a Palermo, la sua città adottiva, per restituire ai giovani quello che lo sport gli ha insegnato.
Rachid, quanto la corsa ti ha cambiato la vita?
Tanto. Lo sport ha funzionato su di me. Diventando atleta professionista sono riuscito a trovare il mio senso. Vivendo in contesti difficili, lo sport ti protegge, ti allontana, non stai per strada.
Cosa significa smettere di essere un atleta professionista?
È un passaggio complesso. Ho trovato un altro modo per stare nell’ambiente cercando di fare qualcosa per gli altri, trasformando la mia passione in un’opportunità di inclusione sociale per i ragazzi, un’occasione di crescita e comunità. Nel 2009, quando ho smesso, la vera sfida era dare un contributo alla città che mi aveva accolto. In una notte ho deciso di tornare a Palermo.
Da dove sei partito?
Dallo Zen. Avevo fatto un incontro in una scuola ed ero rimasto impressionato dai quei ragazzi. Leggevo nei loro occhi il desiderio di vedere altro.
Quale altro?
Un altro fatto di relazioni, di opportunità di crescita. Lo sport ha cambiato la mia storia, e può contribuire molto nella crescita di un giovane. Quando ho deciso di impegnarmi su questa strada, non l’ho fatto per cambiare il volto di un quartiere, non sarebbe possibile. Mi bastava indicare la strada giusta anche a uno solo di quei ragazzi. Senza bacchetta magica.
Quando ho deciso di impegnarmi su questa strada, non l’ho fatto per cambiare il volto di un quartiere, non sarebbe possibile. Mi bastava indicare la strada giusta anche a uno solo di quei ragazzi
Di cosa hanno bisogno i ragazzi?
Di sapere che c’è altro oltre quello che possono vedere e che c’è qualcuno che li stimola e crede in loro. Molti sportivi sono usciti dall’emarginazione grazie allo sport.
Dopo dieci anni, qual è il bilancio?
Nel 2009 sono partito da solo con 15 bambini. Oggi siamo in 25 scuole in diverse periferie, con circa tremila bambini che fanno attività sportiva due volte a settimana, grazie anche alla proficua collaborazione con il Coni e la rete territoriale. Quando individuiamo ragazzi con talento, li segnaliamo alle associazioni agonistiche perché possano trovare ancora più stimoli.
Il ricordo più bello?
Sono riuscito a portare il grande Pietro Mennea all’Istituto comprensivo Giovanni Falcone e a farlo correre in un corridoio sfidando i ragazzi. Un momento indimenticabile.
La fatica più grande?
Oggi, per via del coronavirus, non poter abbracciare i bambini. Abbiamo ripiegato su attività motorie senza contatto e qualche gioco disinfettando la palla. Insomma, cerchiamo di dare continuità a quell’appuntamento relazionale che per i giovani è fondamentale.
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