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Guerra in Ucraina, la sclerosi del potere di Putin

Parlare di follia del presidente russo, oltre che un errore di lettura, è argomento che autoassolve l'Occidente dipingendo il nemico come il male assoluto

Francesco Strazzari

Francesco StrazzariProfessore in Relazioni internazionali

31 marzo 2022

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Più volte, dall’inizio della guerra in Ucraina, qualcuno ha sollevato sospetti sulla presunta follia di Vladimir Putin e ritenuto irrazionale la scelta di attaccare Kyiv. Conoscere il processo decisionale del Cremlino è difficile, ragione per cui sono tornati in voga i cremlinologi, esperti che analizzano segni e segnali – come l’espressione del volto di Putin, la disposizione delle sedie o la lunghezza dei tavoli agli incontri – quasi si trattasse dell’analisi semeiotica dei sintomi di un male. Più che di follia, potremmo considerare le scelte di Putin espressione di una sclerosi del potere: al vertice da quasi 25 anni, circondato da un gruppo di “sicurocrati” (i “siloviki”) cresciuto negli anni Novanta e integrato da profili che aspirano ad accreditarsi a “corte”, si può immaginare che lo “zar” sia ora prigioniero di quella struttura e di meccanismi di consistenza cognitiva per i quali le informazioni dissonanti sono sistematicamente escluse. 

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In questo aspetto Putin si pone in pieno nella tradizione zarista e staliniana, utilizzando un fraseggio che allude alle purghe, instaurando un clima di terrore tra i suoi e trasmettendo l’idea di uno scontro esistenziale per il Paese, un attacco al cuore dell’identità russa e allo status di Grande potenza. Storicamente, Putin tratta l’Ucraina da provincia ribelle dell’impero non degna di essere ritenuta nazione e tantomeno Stato indipendente.

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Il racconto sulla presunta follia di Putin però, oltre che un problema di lettura dei fatti, è un'argomentazione che autoassolve l’Occidente dipingendo il nemico come l’ennesima “reincarnazione di Adolf Hitler”, immagine del male assoluto contrapposta a quella di un popolo buono, in una dicotomia tra vittime e carnefici senza sfumature. Dalla Georgia (2008) alla “liberazione del Donbass” oggi, Putin fa leva sull’emotività dei suoi concittadini parlando di genocidio contro i russi e ricordando quanto diceva Slobodan Milosevic sui serbi in Kosovo. Le bombe del Cremlino contro le antenne delle emittenti radio-tv ucraine ricordano quelle della Nato contro le antenne di Belgrado, obiettivo definito legittimo dal premier inglese Tony Blair. Gli errori dell’Occidente, con arroganza mai ammessa, alimentano il senso di accerchiamento della Russia, costruito a partire dalle invasioni dei popoli della steppa, passato per le spedizioni di Napoleone, l’intervento dei corpi di spedizioni occidentali a fomentare la guerra civile durante la rivoluzione bolscevica, e infine l’operazione Barbarossa nel 1941. Cullata nella dottrina del socialismo in espansione, se si fa eccezione per l’Afghanistan (decisione controversa in seno al Poliburo), l’Urss non ha invaso territorio fuori dal Patto di Varsavia. Putin, invece, sì, avallando la logica da Grande potenza propria dello schema di teoria delle relazioni internazionali di marca conservatrice, il “realismo offensivo” di John Joseph Mearsheimer, nella quale offesa e difesa sostanzialmente si confondono.

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