Carcere e pandemia

Pandemia, Panico e Propaganda sono le tre P che hanno travolto il sistema carcerario italiano durante l'emergenza coronavirus

Elena Ciccarello

Elena CiccarelloDirettrice responsabile lavialibera

10 giugno 2020

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Tre P hanno travolto il sistema carcerario italiano durante l’emergenza coronavirus, portando a galla questioni vecchie e nuove: Pandemia, Panico e Propaganda.

Pandemia

Iniziamo dalla Pandemia. A fine febbraio 2020 l’Italia scopre i primi focolai di covid-19 a Codogno, in provincia di Lodi. È il 26 del mese quando il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) impone ai responsabili degli istituti del nord Italia le prime limitazioni nei contatti tra interno ed esterno delle strutture. Grande è la preoccupazione per le conseguenze che la pandemia può avere nelle carceri italiane, le più affollate d’Europa dopo quelle belghe. Da noi, a gennaio 2020, il tasso di sovraffollamento sfiora il 120 per cento a fronte di una media europea dell’87,1 per cento.

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I presidi sanitari presenti negli istituti sarebbero del tutto insufficienti a gestire l’emergenza e i rapporti con le aziende sanitarie locali, cui fa capo la sanità penitenziaria, non sono sempre dei migliori. Per di più in carcere sono reclusi molti anziani e i problemi di salute sono molto più diffusi (13 per cento dei detenuti) che tra la popolazione generale (7 per cento). La sproporzione è evidente soprattutto per la dipendenza da droghe (il 21,5 per cento di chi si trova in carcere è tossicodipendente), l’infezione da Hiv (il 2,08 contro lo 0,2 per cento della popolazione generale) e i disturbi mentali, presenti in misura dieci volte maggiore.

Panico

In questa condizione, il Panico che attraversa il Paese travolge l’ambiente carcerario. All’indomani del primo intervento del Governo che dall’8 marzo 2020 sospende i colloqui dei detenuti con i familiari, i permessi premio, le semilibertà, nonché lezioni e laboratori che prevedono l’ingresso di personale esterno, scoppiano le rivolte in 49 istituti penitenziari. Il risultato sono tredici persone ufficialmente morte per overdose dopo l’assalto alle infermerie — anche se le circostanze non sono ancora del tutto chiarite —, e circa 1500 detenuti sono trasferiti a seguito delle devastazioni. I familiari sono allarmati dalla pochezza di notizie e contatti. Ci sono anche proteste pacifiche, con digiuni e persino raccolte fondi tra i detenuti per aiutare i soccorsi anti-covid fuori dal carcere. Ma il panico afferra anche chi deve amministrare l’emergenza, tanto che il provveditore degli istituti penitenziari lombardi, Pietro Buffa, sulla rivista Diritto penale e uomo scrive: "Posso assicurarvi di aver visto, in questi mesi, colleghi che, di fronte all’incertezza prolungata del momento e al montare della richiesta di fare luce sulle eventuali responsabilità, sono giunti al punto di verbalizzare il loro terrore di fare un errore e perdere il lavoro, con il risultato di perdere lucidità e bloccare pericolosamente tutto". E questo è ancora nulla, perché a partire da metà aprile, una nuova questione si impone al dibattito pubblico provocando un allarme diffuso: la presunta scarcerazione di massa di boss mafiosi reclusi nei regimi di massima sicurezza.

Propaganda

Eccoci, così, alla Propaganda. I primi di marzo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si trova stretto nella morsa tra quanti, associazioni in primis, chiedono misure deflative per il carcere, invocando anche l’amnistia e l’indulto, e coloro che invece lo aspettano al varco per misurare la sua fedeltà alla linea dura e alla «certezza della pena», vessilli della politica giudiziaria grillina.

Il 17 marzo 2020 due articoli del decreto Cura Italia dispongono lo snellimento delle procedure della legge 199/2010 che prevede misure alternative al carcere per chi deve scontare una pena residua non superiore ai 18 mesi. Il beneficio non riguarda coloro che hanno partecipato alle proteste dell’8 marzo e i reclusi per reati 4 bis, ossia associazione mafiosa e qualsiasi reato aggravato dal cosiddetto metodo mafioso, per i reati di rapina e di estorsione aggravata, quelli associativi in ambito di stupefacenti e i più gravi reati di violenza sessuale, detenuti nei reparti dell’Alta sicurezza e del carcere duro.

Nonostante i paletti, alcuni esclusi riescono a ottenere i domiciliari perché sono in attesa del primo giudizio, o perché sono in carcere da anni e si ritiene estinta la pena per i reati più gravi, o perché si pongono gravi problemi sanitari. Il 14 maggio Bonafede riferisce al Parlamento che, su 3.489 detenzioni domiciliari concesse, i beneficiari provenienti dall'Alta sicurezza sono 494, 4 i provenienti invece dal carcere duro (41 bis). Tra i 494 detenuti, 253 erano in attesa di giudizio. Già dalla seconda metà di aprile il tema della scarcerazione dei “boss” fagocita l’intera questione carceraria. "I boss al 41 bis possono sfruttare l’emergenza coronavirus per tornare liberi", denuncia un articolo de L’Espresso. Pochi giorni dopo si apprende che due reclusi al carcere duro, il siciliano Francesco Bonura e Pasquale Zagaria, fratello del vertice del clan camorristico dei casalesi Michele Zagaria, colpiti da gravi patologie, sono passati ai domiciliari. Nell'ultimo caso, in particolare, è un pasticcio nelle comunicazioni da parte del Dap a favorire la ricollocazione ai domiciliari di Zagaria, posto che in Sardegna, dove era recluso, non era più possibile garantirgli la necessaria assistenza sanitaria. La trasmissione televisiva Non è l’Arena (La7) diventa il palcoscenico dell’“emergenza” scarcerazione, cui viene associata una ventilata — e mai provata — ipotesi di trattativa Stato-mafia sulla concessione dei domiciliari ai “boss” mafiosi. Sui giornali e in tv è un fiorire di elenchi e nomi di “boss” scarcerati ma languono le comunicazioni ufficiali. La prima lista compare su Repubblica, il 3 maggio. 

I dati

A questo punto non ha più alcuna importanza se la stragrande maggioranza di quanti passano ai domiciliari non sono “boss”, se tanti sono malati o stavano già per uscire dal carcere. Lo sconcerto pubblico che accompagna la lettura di certi nomi sclerotizza definitivamente il dibattito, che diventa materia di propaganda politica pro e contro il Governo, al punto che il 20 maggio viene votata (e respinta) una mozione di sfiducia al guardasigilli. Si dimettono i vertici del Dap, sostituiti da due ex pm antimafia: Dino Petralia e Roberto Tartaglia. Con altri due provvedimenti, il Governo prima sottopone le scarcerazioni ai pareri delle direzioni distrettuali antimafia e della direzione nazionale antimafia, poi dispone un sistema per la loro revisione. Il Dap si riorganizza.

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Conclusione. Il dato ottenuto da lavialibera l’8 giugno 2020 dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria conta 223 scarcerazioni dai reparti di alta sicurezza per cause espressamente legate a covid, di cui 121 definitivi e 102 cautelari. Solo 4 domiciliari dal regime duro del 41 bis. Nel complesso, dal 19 marzo al 5 giugno 2020, le presenze in carcere diminuiscono di 6.899 unità, soprattutto a causa dei minori ingressi. A gennaio 2020, prima di covid, in carcere entravano ogni giorno mediamente 130 persone e ne uscivano 146; ad aprile 2020, in piena pandemia, ne entravano 58 e ne uscivano 208. In compenso, nello stesso periodo, si contano 13 morti non ancora chiarite e 21 suicidi, due dei quali hanno riguardato persone appena incarcerate e collocate in isolamento sanitario precauzionale. Nessuna scriteriata scarcerazione di massa dunque. Anzi, nonostante le quasi 7mila presenze in meno in carcere, gli istituti sono ancora sovraffollati, privi di strutture sanitarie adeguate, zeppi di persone in attesa di primo giudizio, malati, tossicodipendenti e senza dimora. Ma la propaganda trascura questi problemi strutturali: di loro nessuna traccia né in tv né sulle prime pagine dei giornali.

Da lavialibera n° 3 maggio/giugno 2020

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