12 marzo 2020
Mentre nei luoghi pubblici bisogna tenere la distanza di un metro per ridurre il rischio di contagio da coronavirus, nelle carceri ogni detenuto ha circa tre metri quadri di superficie a disposizione e talvolta in una cella di dieci metri vivono anche sei persone. Si indaga per capire se dietro le proteste degli ultimi giorni ci sia stata una “regia” unica, circola l’ipotesi di rivolte animate dalla criminalità organizzata, ma in molti casi la ragione è più semplice: il malessere di condizioni di vita già difficili, inasprite dalle restrizioni anti-Covid19 previste dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e dal decreto legge dell'8 marzo. Chi è in semilibertà non può uscire dal carcere fino al 31 maggio e i colloqui coi familiari sono sospesi fino al 22 marzo. A queste restrizioni si aggiunge la paura di ammalarsi, dato lo spazio poco salubre, le celle sovraffollate e l’assistenza sanitaria sotto gli standard previsti. Così su Internet sarebbero girati, nei giorni prima degli ultimi fatti, appelli a protestare con la “battitura” delle sbarre, un metodo di protesta usato dai detenuti per attirare l’attenzione sui loro problemi.
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A distanza di due anni tuttavia occorre osservare che i processi e le modifiche normative allora assunti non sono stati sufficienti a fermare la ripresa di un tendenziale aumento della popolazione detenutaGarante nazionale dei detenuti
L'emergenza coronavirus ha drammaticamente acceso i riflettori su un vecchio problema del sistema carcerario: il sovraffollamento. Gli istituti di pena hanno 50.931 posti, ma stanto all'ultimo dato fornito dal ministero della Giustizia le persone in cella al 29 febbraio scorse rano 61.230. In media, dove dovrebbero starci cento persone ce ne stanno 120. Dopo le proteste molte sezioni, danneggiate, sono inutilizzabili e i detenuti sono stati trasferiti, peggiorando ulteriormente l’affollamento delle strutture. “A Modena gran parte dell’istituto è diventato inagibile”, ha detto al parlamento il ministro Alfonso Bonafede.
Siamo lontani, ma non troppo, dai livelli del 2010 con 67.961 detenuti, 22.839 in più rispetto alla capienza. Dopo un periodo di calo, negli ultimi anni la popolazione carceraria è tornata a crescere. A provocare la diminuzione era stata una sentenza della Corte europea dei diritti umani (Cedu) nella causa “Torreggiani e altri contro Italia” del gennaio 2013: Roma era stata condannata perché nelle carceri italiane c’erano meno di tre metri quadrati di spazio per ogni detenuto, un trattamento “inumano e degradante”, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione per i diritti umani. Entro il 2015 l’Italia avrebbe dovuto trovare una soluzione, quindi sono stati presi provvedimenti emergenziali come la legge “Svuotacarceri” e poi una riforma più organica, la riforma "Orlando" (dall'allora ministro della Giustizia Andrea Orlando), con depenalizzazioni e nuove regole per la custodia cautelare in carcere (leggi la nota breve del servizio studi del Senato dell'aprile 2017).
Da allora il numero di detenuti è calato e nel 2015 è sceso a 52.164. Nel 2016 il Consiglio di Europa (a cui fa capo la Cedu) ha chiuso la procedura di infrazione contro l’Italia. "A distanza di due anni tuttavia occorre osservare che i processi e le modifiche normative allora assunti non sono stati sufficienti a fermare la ripresa di un tendenziale aumento della popolazione detenuta”, si legge nell’ultimo rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, organismo statale indipendente che valuta le condizioni di vita di chi si trova nei “luoghi di privazione della libertà”.
(l'articolo prosegue dopo il grafico)
Secondo la recente relazione Space I, realizzata per il Consiglio d’Europa sulla base di dati del 31 gennaio 2018, tra le cause del sovraffollamento c’è la carcerazione preventiva che riguarda il 34,5% della popolazione carceraria: quasi 20mila persone in cella senza una condanna definitiva (e di questi la metà aspetta il primo grado di giudizio).
Negli ultimi giorni sono tornate in uso parole come “amnistia” e “indulto”, provvedimenti previsti dall’articolo 79 della Costituzione. Il primo “estingue il reato”: lo Stato rinuncia a perseguire su alcuni reati ed è come se non fossero mai stati commessi. Il secondo porta invece a condonare, in tutto o in parte, la pena senza cancellare il reato. Per ottenerli c’è bisogno di un disegno di legge approvato con “maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera” e valgono soltanto per i reati commessi prima della presentazione del ddl.
Invocano queste soluzioni familiari dei detenuti, alcune associazioni, avvocati penalisti e i radicali. Il ministro Bonafede ritiene le proteste e le evasioni "atti criminali" (leggi l'articolo sulla fuga dei detenuti di Foggia) e afferma di non voler concedere misure di clemenza. "Deve essere chiaro che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà ad alcun risultato", ha dichiarato lunedì il guardasigilli. Mercoledì al parlamento ha ribadito che "lo Stato non indietreggia di un centimetro di fronte all'illegalità".
"Come associazione Antigone non ci permettiamo di pronunciare parole che generano false aspettative, poi delusione e rabbia – spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione –, soprattutto in questa fase storica in cui si parla soprattutto di certezza della pena". Lo stesso concetto è stato espresso dal deputato Pd Walter Verini alla Camera mercoledì pomeriggio. “Amnistia e indulto non sono le risposte da dare dopo le proteste”, dichiara a lavialibera il senatore Franco Mirabelli.
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Le soluzioni suggerite in questa fase sono diverse. “Bisogna allargare il flusso di detenuti in uscita inserendo chi ha problemi di salute che potrebbero essere aggravati dal coronavirus – spiega la coordinatrice di Antigone –. Inoltre le misure dentro-fuori, come la semilibertà e la possibilità di lavorare all’esterno facendo ritorno in carcere la sera, non devono diventare ‘tutto dentro’, ma devono essere trasformate in ‘tutto fuori’ con un affidamento in prova, ad esempio, o con una licenza per le settimane dell’emergenza, come a Napoli”. Nella città partenopea il Tribunale di sorveglianza ha permesso ai detenuti in regime di semilibertà di rimanere a casa, uscire per lavorare o svolgere volontariato sottoponendosi ai controlli regolari ed evitando di frequentare pregiudicati. Il senatore Pd Mirabelli guarda invece all’esempio del Tribunale di Sorveglianza di Milano: “Sta impostando un percorso con cui i detenuti malati andrebbero in comunità o ai domiciliari e chi ha la possibilità di lavorare all’esterno possa sottoporsi all’affidamento in prova”, cioè scontare la pena fuori dal carcere per un periodo al termine del quale viene valutato l’esito. Il Pd propone inoltre un’altra misura: “Bisognerebbe concedere i domiciliari per i detenuti a fine pena e valutare soluzioni alternative per chi è in attesa di giudizio”.
Per interventi più strutturali, invece, bisognerà aspettare. Antigone auspica un “ripensamento complessivo del sistema penale” in cui la pena possa essere scontata fuori dal carcere con misure alternative. “Nella riforma del processo penale verranno affrontate alcune ipotesi, come prevedere pene non detentive per i reati di scarsa pericolosità”
Se per evitare il coronavirus viene raccomandata una distanza minima di un metro tra le persone, può risultare difficile farlo quando la condizione di partenza è di almeno tre metri quadri di superficie calpestabile per ogni detenuto, “limite che in 16 casi, cioè il 19%, degli istituti visitati da Antigone continua a non essere garantito per tutti”, denuncia l’associazione nel suo XV rapporto. Comprensibile la paura del contagio nonostante le carceri siano ambienti più chiusi, soprattutto in luoghi dove l’età media è aumentata negli ultimi anni e dove molti detenuti hanno problemi di tossicodipendenza (leggi l'articolo). A questo, poi, si aggiunge l’assistenza sanitaria. Nelle carceri esistono infermerie che secondo il Garante nazionale “sono al di sotto degli standard richiesti” e in certi casi registrano la presenza di blatte e insetti infestanti, “inaccettabili in un ambiente sanitario”. Insomma, nel caso in cui nelle carceri dovesse arrivare il contagio, sarebbe difficile intervenire o mettere in isolamento i “detenuti sintomatici”, come prevede il decreto del governo, nonostante la circolare del Dap chieda di individuare spazi adeguati.
Dieci minuti di telefonate a settimana non bastano e non tutti gli istituti sono attrezzati con Skype. Per questo bisognerebbe permettere di fare videochiamate con WhatsappSusanna Marietti - Coordinatrice nazionale Antigone
La circolare del Dap, firmata dal direttore Francesco Basentini, impone di “sostituire i colloqui con familiari o terze persone, diverse dai difensori, con i colloqui a distanza mediante le apparecchiature in dotazione agli istituti penitenziari (Skype) e con la corrispondenza telefonica, che potrà essere autorizzata oltre i limiti”. Dal 2019 una circolare del Dap ha invitato tutti gli istituti a rendere accessibile la piattaforma “Skype for business” per le video-chiamate dei detenuti del circuito di media sicurezza ai loro familiari, ma nel pre-rapporto 2019 di Antigone si segnala che nel 65,6% delle carceri non è possibile avere contatti coi familiari via Skype e che “nell’81,3% delle carceri non è mai possibile collegarsi a Internet”. Dalla scorsa settimana Antigone chiede alcune soluzioni, come aumentare il tempo delle telefonate: “Dieci minuti a settimana non bastano e non tutti gli istituti sono attrezzati con Skype – dice Marietti –. Per questo bisognerebbe permettere di fare videochiamate con Whatsapp”. Non in piena libertà, ovviamente, ma soltanto verso i numeri autorizzati e sotto il controllo del personale.
Limitare per alcune settimane la possibilità di vedere i familiari resta una questione grave. Il senatore Pietro Grasso (Liberi e Uguali) ha ricordato in aula che, oltre a permettere di rivedere i parenti, questi appuntamenti sono “la principale possibilità di ricevere cibo, biancheria pulita, beni di prima necessità”. “I legami con l’esterno, in particolare con le famiglie, sono essenziali sia sotto l’aspetto della sfera affettiva sia per il supporto materiale e rendono meno difficile la carcerazione”, scriveva l’attuale provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, Pietro Buffa, nel libro Prigioni. Amministrare la sofferenza (Edizioni Gruppo Abele, 2016).
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