Le immagini dell'infermeria di Modena dopo l'assalto dei detenuti
Le immagini dell'infermeria di Modena dopo l'assalto dei detenuti

Coronavirus, il dramma dei tossicodipendenti dietro l'assalto alle infermerie delle carceri

Negli istituti penitenziari servizi e assistenza psicologica per chi dipende da sostanze sono carenti, denunciano le associazioni. Eppure, si tratta di una quota importante di detenuti, che nel 2018 era del 27,94 percento

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

Aggiornato il giorno 12 marzo 2020

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Tredici morti: è il bilancio della rivolta nelle carceri italiane scatenata dalla sospensione dei colloqui tra detenuti e familiari. Una decisione presa per prevenire i contagi da coronavirus (Covid-19) e che, secondo le associazioni a tutela dei diritti dei detenuti, non sarebbe stata accompagnata da un'adeguata informazione, provocando il panico. L'assenza di notizie chiare, la mancanza del supporto della famiglia, nonché la paura di un contagio considerato il tasso di sovraffollamento al 120 percento e le scarse condizioni igienico-sanitarie degli istituti penitenziari, avrebbero alimentato un malessere preesistente e innescato le violenti sommosse. Anche se la magistratura sta indagando pure su una possibile regia criminale esterna. Le conseguenze? Incendi, evasioni, scontri con gli agenti, sequestri di persona e — nei casi peggiori — feriti e morti.

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Tredici morti per overdose: "Fare chiarezza subito"

"Non diamo per scontato nulla. I tossicodipendenti sanno che abusando di quei farmaci rischiano la vita", Michele Miravalle - coordinatore nazionale Osservatorio sulle condizioni detentive dell'associazione Antigone

L'ultimo deceduto, ieri, era recluso al Dozza di Bologna. Nel carcere di Rieti sono morte tre persone, mentre legati alla rivolta nel penitenziario di Modena si contano nove decessi, di cui cinque sono avvenuti a Modena e altri quattro nelle strutture in cui i detenuti erano stati trasferiti subito dopo i tafferugli. Secondo le prime ricostruzioni ufficiali, la causa sarebbe uguale per tutti: overdose da metadone (un farmaco utilizzato nella terapia di sostituzione da eroina), o da altri farmaci, presi durante il saccheggio dell'infermeria dei due istituti penitenziari. "Servono autopsie ed esami tossicologici per stabilire quanto accaduto realmente", precisa a lavialiberaMichele Miravalle, coordinatore nazionale dell'Osservatorio sulle condizioni detentive di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. "Si tratta della più grande morte collettiva avvenuta negli ultimi trent'anni, su cui bisogna subito fare chiarezza. Non diamo per scontato nulla considerato che se sei un tossicodipendente, sai che con l'abuso di quei medicinali rischi la vita".

Il 27,94 percento dei detenuti è tossicodipendente

I numeri potrebbero essere molto più alti, in quanto la stima tiene conto solo dei tossicodipendenti riconosciuti dal sistema sanitario nazionale

Ma l'assalto alle infermerie è un dato di fatto che ha riguardato non solo le carceri di Modena, Rieti e Bologna, ma anche diversi altri istituti come Rebibbia e San Vittore, dove accanto alla protesta per il sovraffollamento si è affiancata la richiesta di comunità per i tossicodipendenti. Istanza che ha puntato i riflettori su un problema nel problema: la cura della tossicodipendenza in carcere. Una questione non di poco conto visto che i tossicodipendenti costituiscono una fetta importante e in crescita della popolazione carceraria: gli ultimi dati a disposizione sono quelli del 2018 e mostrano che quell'anno i tossicodipendenti dietro le sbarre erano 16.669, il 27,94 percento dei detenuti complessivi, mentre cinque anni prima (nel 2013) erano 14879, ovvero il 23,79 percento. La percentuale del 2018, si legge nella decima edizione del Libro bianco sulle droghe, “supera il picco post applicazione della legge Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007)", che equiparava tutte le sostanze, leggere e pesanti, prevedendo la stessa pena: dai sei ai venti anni di galera. Un ulteriore record è costituito dalla percentuale di tossicodipendenti tra i nuovi detenuti: il 35,53 percento dei nuovi soggetti entrati in carcere nel corso del 2018 era tossicodipendente. Numeri che potrebbero essere molto più alti, in quanto il conteggio si limita ai tossicodipendenti accertati dal sistema sanitario nazionale e non include coloro che, pur facendo uso di sostanze, non dichiarano la propria dipendenza. 

"Le carceri italiane sono strapiene di persone con problemi di dipendenza dall'uso di droghe, con disagio psichico, provenienti da strati marginali delle nostre periferie urbane — ha scritto su L'Espresso Patrizio Gonnella, presidente di Antigone —. Uno sguardo alla popolazione detenuta presente nelle galere d'Italia ci rimanda una fotografia di un sistema penale e penitenziario fortemente selettivo sulla base del censo, dell'educazione scolastica e delle opportunità di vita".

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La carenza di servizi e assistenza psicologica

Persone che all'interno degli istituti penitenziari si trovano a fare i conti con una carenza di servizi per via di uno scarto "tra quello che prevedono le leggi e come le leggi vengono applicate", denuncia Miravalle. "Almeno per quel che riguarda i tossicodipendenti riconosciuti dal sistema sanitario nazionale, la normativa prevede dei circuiti ad hoc chiamati Icatt (Istituti a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti, ndr), ovvero delle sezioni di istituto penitenziario riservate esclusivamente ai tossicodipendenti, dove l'obiettivo primario è fornire una terapia sia farmacologica sia psicologica. Ma la costituzione pratica di questi circuiti, che dal 2008 spetta all'azienda sanitaria locale, lascia a desiderare tanto che negli anni molti di loro sono stati ridimensionati se non del tutto cancellati". Il risultato è che spesso ottenere il metadone, distribuito nei servizi per le tossicodipenze interni alle carceri, diventa difficile e viene completamente a mancare il supporto psicologico, mentre gli psicofarmaci sono prescritti con facilità. Di conseguenza, "quello che dovrebbe essere un trattamento assume più la forma di un contenimento".

Quasi totalmente assenti, poi, sono i servizi di riduzione del danno — quei servizi che puntano a contenere le conseguenze negative dell'uso di droga sulla salute —, dice Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca). "All'interno delle carceri non riusciamo ad avere un'adeguata diffusione di siringhe pulite né di acqua distillata, né di naloxone, un farmaco salvavita in caso di overdose. La ragione sta nel fatto che le sostanze stupefacenti non dovrebbero circolare in carcere, ma la realtà è che negli istituti penitenziari le sostanze arrivano e il metadone diventa merce di scambio. Non tenerne conto significa creare una miscela esplosiva". 

"I tossicodipendenti non dovrebbero stare in carcere"Rita Bernardini - partito radicale

Inoltre, prosegue De Facci, "molte di queste persone potrebbero usufruire di misure alternative alla detenzione penale, come la messa alla prova, gli arresti domiciliari e i lavori socialmente utili. Misure che, però, vengono difficilmente attuate per due ragioni. In primo luogo per l'assenza di un sistema di supporto territoriale sufficiente. In seconda battuta perché i tossicodipendenti vengono considerati inaffidabili".

Chiara l'opinione in merito di Rita Bernardini, esponente del partito radicale: "I tossicodipendenti non dovrebbero stare in carcere — ammonisce Bernardini —. Negli istituti penitenziari queste persone non sono seguite dal punto vista psicologico, terapia fondamentale considerato che in molti casi alla tossicodipendenza è associata una diagnosi psichiatrica. L'inadeguatezza è dimostrata anche dal fatto che parte dei suicidi in cella avviene per lo sballo causato dalle bombolette di gas sniffate dai tossicodipendenti in mancanza di altre sostanze. È necessario prevedere degli istituti di custodia attenuata". Agli inizi del 2010 il parlamento aveva approvato una risoluzione firmata dai Radicali che ne prevedeva l'istituzione, ma poi "è finita con un nulla di fatto", conclude Bernardini.

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