Aggiornato il giorno 9 maggio 2022
Ogni settimana un contributo dalla rubrica Generazione Z. Uno spazio pensato per dare voce alle ragazze e ai ragazzi cosiddetti nativi digitali: storie, pensieri e riflessioni per raccontare il mondo dal loro punto di vista
Prima del 4 luglio del 2017 non conoscevo la storia di Peppino Impastato: era una di quelle tante sedie vuote, citando Enrico Deaglio, a cui non avevo mai dato importanza. Quell'estate partecipavo a un campo in un bene confiscato alla mafia a Corleone, dove dividevamo le giornate tra qualche lavoro e incontri sull'educazione alla legalità. Quel pomeriggio ci portarono a Cinisi, in provincia di Palermo, e mi imbattei nella storia di Peppino Impastato, il giornalista ucciso il 9 maggio 1978 per le sue denunce contro Cosa nostra. Per la prima volta capii cos’avrei voluto fare nella vita: il giornalista di mafia. Mi resi conto di essere senz’alibi: lui ebbe il coraggio di ribellarsi al proprio piccolo paese e, addirittura, al proprio padre; io come avrei potuto fare altrimenti?
Vivere in un paese ad alta densità mafiosa significa vivere in una dittatura basata sull’omertà. E, in un paese come Cinisi, in quegli anni i confini tra mafia e Stato risultavano sfumati in un unico groviglio di criminali. Il ruolo di Peppino si inserì proprio qui: la volontà di ridare una dimensione democratica al proprio paese perché, voglio sottolinearlo, vivere in un paese mafioso significa vivere senza democrazia.
Di fronte a tutto ciò il giornalista vero, il giornalista giornalista, ha però l’arma più forte di tutte: l’informazione. Iniziando una battaglia apparentemente persa in partenza, a distanza di 44 anni, possiamo dire che la guerra più importante, quella con la mafia di Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi, Peppino Impastato l’ha vinta. Purtroppo, pagandola con il caro prezzo della vita.
Penso alla mia generazione: quanti di noi, prima di questo lockdown, possono dire di non essere stati liberi? Questa situazione mi ha fatto capire cosa significa vivere senza diritti fondamentali
Ricordare quest’anno Peppino Impastato ha per me un valore aggiunto. Penso alla mia generazione, ai miei coetanei, e non solo: quanti di noi, prima del lockdown dovuto alla pandemia da coronavirus, possono dire di non essere stati liberi? Ebbene, la situazione di emergenza che abbiamo vissuto mi ha dato la possibilità di capire cosa significa vivere in una società in cui alcuni diritti fondamentali non sono rispettati. L’eccezionalità del momento, il fatto che la nostra libertà sia limitata per preservare un altro diritto, il diritto di tutti alla vita, ci permette di capire ancora meglio cos’è stato Peppino. È vero, le libertà in gioco erano diverse; ma sempre di libertà si tratta. Il 9 maggio non è una data come le altre.
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