1 luglio 2024
Ci sono nel mondo tanti tipi di famiglie e nessuna di queste – secondo l’opinione di antropologi e sociologi – è “naturale”. È anche vero che la tendenza a costituire all’interno delle società aree più ristrette di convivenza è un tratto praticamente universale. Non appena la società assume certe dimensioni, è come se tra la singola persona (chiamiamolo “io”) e la società più vasta (un “noi” collettivo) si avvertisse la necessità di costruire un luogo intermedio, un noi più intimo e, appunto, famigliare: una sorta di rifugio o di ponte tra la solitudine dell’io e il carattere pubblico del noi.
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Il noi sociale e collettivo può essere una sorta di teatro, una scena pubblica in cui gli io sono tenuti a recitare i loro diversi ruoli. Dal sociologo Erving Goffman all’antropologo Victor Turner, sono molti coloro che hanno concepito la vita sociale come una continua recita. Clifford Geertz, nella sua analisi della vita sociale a Bali, ha messo in luce l’importanza del concetto di lek, di solito tradotto con “vergogna”, e che egli rende con l’espressione più precisa di "paura del palcoscenico". Vi è anche chi, invece, ha interpretato la vita sociale in termini di scambio, un continuo offrire, dare, ricevere, contraccambiare non soltanto come commercio, ma anche come dono. I francesi Marcel Mauss e Claude Lévi-Strauss sono gli antropologi che più di altri hanno insistito su questo aspetto.
Tutti i nostri editoriali, a cura di Rosy Bindi, Antonello Pasini, Alberto Vannucci e altri
Recitare e scambiare sono comportamenti diversi e tuttavia hanno degli elementi in comune: tutti gli autori citati alla fine sono costretti ad ammettere lo stress della vita sociale. Di qui il carattere pressoché inevitabile di luoghi in cui lo stress si attenua, dove gli io possono smettere, almeno in parte, di recitare e di scambiare pubblicamente, e dove essi possono guadagnare un certo grado di intesa e di intimità. Luoghi di più intima partecipazione e convivenza.
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