Aggiornato il giorno 25 novembre 2024
A 65 anni ha ucciso la propria convivente. Ma nella sentenza che l’ha condannato a 15 anni di carcere i giudici, quasi a giustificarlo, scrivono che viveva un "crescente senso di disagio e frustrazione" per aver avvertito uno "scarto" tra "l’intensità dei propri sentimenti" e "quelli provati nei suoi confronti dalla vittima". Uno scarto che ha reso "verosimile il movente della gelosia": una causa che, concludono i giudici, "non può definirsi futile" perché "nella coscienza collettiva" non è avvertita come "motivo sproporzionato rispetto all’omicidio". Il concetto di gelosia ritorna in un’altra sentenza con protagonista un giovane che "non sa rassegnarsi all’abbandono della vittima". Una ragazza dalla condotta definita "ondivaga" che avrebbe generato nell’uomo uno stato di "tensione" e "timore", spingendolo all’assassinio. Anche stavolta i giudici escludono i futili motivi e la possibile aggravante che determinerebbe una pena più severa. Condanna a 14 anni.
Gli uomini che uccidono per ragioni sentimentali subiscono condanne meno severe
Gelosia è una parola che ritroviamo spesso nella narrazione mediatica dei femminicidi: dall’inizio del 2021 all’8 febbraio sono state sette le donne uccise, nel 2020 112. Geloso era Pietro Morreale, il 19enne che ha bruciato la sua fidanzata nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 2021. E "geloso" è una definizione che ricorre anche nelle aule dei tribunali, dove si ripropongono stereotipi e pregiudizi nei confronti delle donne. Una forma di sessismo che ha ricadute sulla giustizia: i femminicidi a cui si attribuiscono motivazioni sentimentali e relazionali sembrano subire pene meno severe.
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È quanto emerge da uno studio finanziato dall’allora ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, e condotto all’interno del Laboratorio sulle rappresentazioni sociali sulla violenza sulle donne dell’Università degli studi di Palermo, diretto dalla professoressa Alessandra Dino. Una ricerca che ha valutato le sentenze di omicidi volontari delle donne andati a giudizio tra il 2010 e il 2016, prendendo in esame 370 casi e 400 vittime. A ciò si è affiancata un’analisi qualitativa delle motivazioni di 32 sentenze, che ricostruisce la narrazione giudiziaria del femminicidio.
Nella maggior parte dei casi il femminicidio accade dentro contesti relazionali, domestici, passionali e familiari. Degli omicidi presi in esame, 204 sono stati commessi da uomini in un rapporto sentimentale e/o coniugale con la vittima, di solito più giovane. In particolare, una volta su quattro è stato l’ex compagno a uccidere. Ma due volte su tre la relazione era ancora in corso. Una spia del tragico epilogo: circa un quarto degli imputati aveva precedenti penali generici e il 6,2 per cento precedenti contro la vittima.
A volte le compagne sono descritte come corresponsabili del femminicidio perché non denunciano
Esaminando l’esito dei processi, si scopre che il 71,6 per cento dei killer ha chiesto il rito abbreviato e ottenuto condanne meno severe. Gli uomini motivati da ragioni sentimentali e relazionali hanno ottenuto meno condanne all’ergastolo, sia in primo sia in secondo grado. Secondo lo studio, il dato suggerisce come le motivazioni cosiddette sentimentali "favoriscano l’attribuzione di attenuanti" nel decidere la condanna. Come se la cornice psicologica ed emotiva – che assume le forme della gelosia, della paura dell’abbandono e del senso di rifiuto – sminuisse la gravità del gesto attenuando la responsabilità dell’autore.
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Per capirne il perché diventa importante lo studio delle sentenze. In una, ad esempio, alla gelosia si associa il timore dell’uomo di compromettere la propria dignità per via della "vita parallela della vittima", un’italiana disoccupata che viveva una condizione di "evidente disagio". In un’altra, nonostante il timore dell’abbandono venga collegato a "un inaccettabile senso del possesso", si aggiunge che si tratta di una modalità di rapportarsi con l’altro "ritenuta abituale" e definita in termini di dominio. Significativa è una sentenza della Corte di assise di appello di Trento del 2015 che individua il movente dell’omicidio in una "ferita narcisistica": l’uomo era stato lasciato dalla donna "con una determinazione che non era riuscito ad accettare".
A volte le compagne sono descritte come corresponsabili del vissuto violento e poi del femminicidio, anche perché non abbastanza determinate a denunciare chi le picchia. Così, da una parte, la rappresentazione della vittima che non denuncia riproduce lo stereotipo della donna sottomessa e passiva. Dall’altra, la donna che vuole recuperare la propria autonomia è considerata all’origine di quel sentimento di frustrazione che fa scattare la "furia omicida". La violenza, invece, viene spesso interpretata come "conseguenza di un disagio interiore per un sentimento non corrisposto".
In molti casi il risultato è una narrazione "in cui si conferma la considerazione della donna come oggetto di potere, il cui desiderio di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione genera reazioni violente, venendo percepito come inaccettabile atto di insubordinazione", conclude la ricerca.
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