16 luglio 2024
“Il Ministero dell’Interno dice che rispetto al 2023, il 2024 fa segnare un 17 per cento in meno di donne uccise da uomini violenti. Ma in questi dati non risultano le donne scomparse, quelle che si sono suicidate a causa della violenza subìta, i tentati femminicidi che portano a forme di invalidità totale per tutta la vita, i figli uccisi insieme alle loro madri, le morti successive a maltrattamenti gravissimi o che hanno accelerato patologie pregresse, le donne che si prostituiscono uccise dai loro clienti quindi quando parliamo di femminicidi: nessuna statistica sarà mai una buona notizia. Sul tema l’unica voce positiva è che stiamo rafforzando ancora, solo in sede giudiziaria, strumenti per contrastare e prevenire il fenomeno. Strumenti che stanno stimolando una lenta consapevolezza culturale e una maggiore visibilità verso l'intollerabile omissione di tutto quello che riguarda le donne, dai loro talenti alle loro uccisioni efferate. Che nel frattempo però continuano a morire”. Paola Di Nicola Travaglini, giudice della Corte suprema di Cassazione, già consulente della Commissione femminicidio del Senato della XVIII legislatura, ci chiede espressamente di non aprire l’intervista con una lettura positiva dei dati, in lieve calo, del fenomeno: “Per capire questa violenza servono le giuste chiavi e i numeri non spiegano accuratamente gli omicidi”.
Quali sono le chiavi di lettura? Perché gli uomini uccidono le donne?
Perché non tollerano la libertà femminile e non tollerano di non imporre la subordinazione alle donne. È un meccanismo che nasce da una impostazione culturale di radice millenaria. Abbiamo interiorizzato la gerarchia di potere tra uomini e donne. Un uomo, in alcuni contesti, è accettato e accettabile dal punto di vista sociale, culturale, economico, politico, professionale solo se impone il proprio potere sul genere femminile. Se non lo fa non è riconosciuto. Se non ci riesce, e la donna reagisce con un esercizio di libertà, quella libertà viene punita con l’omicidio.
Dalla Relazione del 2022 sull'attività della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere emerge che il femminicidio è sempre il risultato di un percorso di violenze visibile dalla cerchia sociale della vittima, ma che nessuno ha denunciato. C’è una responsabilità collettiva sui femminicidi?
"Per capire questa violenza servono le giuste chiavi e i numeri non spiegano accuratamente gli omicidi"
Certamente. Ma è sia collettiva, sia individuale. Una donna racconta sempre a un’amica, a una collega, al fratello, al padre o alla madre, oppure la vedono livida o la sentono urlare la farmacista, il medico di famiglia, il vicino di casa, il parroco. Molti, se non tutti, sanno che quella donna sta subendo delle violenze. Eppure nessuno chiede, nessuno approfondisce, tutti cercano di ridimensionare a questione privata. La formula magica che solleva tutti noi dalla responsabilità. Almeno finchè la donna in questione non viene uccisa.
È incredibile che in Italia ci sia più omertà per la violenza contro le donne che rispetto a quella mafiosa. Un femminicidio non è l’ennesima morte di una donna fragile vittima di un criminale incallito. Le donne vengono uccise in famiglia, in casa, da padri, figli, mariti, fidanzati ed ex, da chi dice di amarle per confonderle.
La violenza non è solo patriarcato
Il nostro sistema normativo è adatto ad affrontare efficacemente il fenomeno?
Assolutamente sì. Il nostro è tra gli ordinamenti più efficienti al mondo. Il punto è la formazione. Occorre una formazione che consenta la giusta interpretazione degli indizi della violenza. Se una donna va in commissariato a denunciare che il compagno le ha tolto le chiavi della macchina e le dicono che non è grave, non capiscono che quel marito le sta togliendo la possibilità di andare a lavoro e di essere indipendente economicamente, non colgono che le sta togliendo la possibilità di uscire e vedere altre persone, la possibilità di andare via da lui, la sta isolando.
Noi abbiamo un apparato normativo molto potente. Ma questa potenza viene ridotta quando si sbaglia l’interpretazione dei segnali. Se non si riconosce il fenomeno lo si banalizza. Se un omicidio mafioso viene scambiato per una vendetta per lo sconfinamento di pecore su terreni altrui non si sta leggendo la realtà dei fatti, la loro reale dimensione. Se l’uccisione di una donna da parte di un ex marito passa per raptus d’ira passeggero, per un amore deluso, il giudice e la comunità che accoglie quella lettura del giudizio stanno rimuovendo la vera radice della violenza.
Femmincidi, tutta colpa della gelosia
Nel 2019 è entrata in vigore la legge n. 69, detta “Codice rosso”. Sono passati cinque anni, qual è il suo bilancio?
Il bilancio è molto buono. Prima dell’introduzione del Codice rosso magistratura e forze di polizia seguivano una tempistica molto rigida. La priorità andava a omicidi, rapine, spaccio. Le denunce per violenze domestiche o stalking erano secondarie. Il Codice rosso ha fatto sì che dal punto di vista giuridico i delitti contro le donne abbiano la stessa priorità e gravità dei reati di criminalità organizzata. Magistratura e forze di polizia hanno fatto un salto di qualità per cui le denunce che prima potevano aspettare ora vanno trattate immediatamente. È un'inversione di tendenza imposta dal legislatore che incoraggia le istituzioni a fare bene e in fretta da un lato. Da un altro è stato il riconsocimento della precedente inadeguatezza del sistema giudiziario nel suo complesso.
"Lavoro con gli uomini violenti per aiutare le vittime"
L’ingresso delle donne in magistratura è relativamente recente e frutto di battaglie. Il diritto penale e le istituzioni giudiziarie sono oggi luoghi in cui la parità di genere è effettiva?
L’esclusione delle donne dalla magistratura fino al 1963 per legge – il primo concorso aperto alle donne è stato nel 1965 – ha fatto sì che l’interpretazione maschile del diritto evolvesse a rilento. Le abrogazioni dei diritti patriarcali sono conseguenti all'accesso delle donne in magistratura. Fino al 1956 il codice penale italiano riconosceva lo Ius corrigendi, ossia il diritto del padre o del capofamiglia di picchiare moglie e figli per ripristinare l'ordine nel contesto familiare. Solo nel 1981 abbiamo abrogato il delitto d’onore e il matrimonio riparatore in caso di stupro. Il sistema penale italiano è stato infarcito di misure che manifestano l’imposizione del potere gerarchico dell'uomo come diritto. Negli anni questo schema è stato modificato coerentemente con le convenzioni internazionali e prima ancora con la Costituzione repubblicana che sancisce il principio di uguaglianza e di non discriminazione. Ma è stata un'operazione lunga. Non solo del legislatore, ma anche degli interpreti.
Oggi le donne in magistratura sono più della metà del totale, ma nei ruoli apicali continuano a esserci in gran parte uomini. Eccetto la Corte di Cassazione che adesso vede la prima presidente donna, Margherita Cassano. Ma la strada è ancora lunga.
Parlamento Ue: "Violenza di genere come mafia e terrorismo"
Quali conseguenze ha questa assenza di parità sui giudizi per femminicidio o violenza?
Le conseguenze, a mio modo di vedere, non dipendono da questa disparità. È un problema che non riguarda donne o uomini ma la loro formazione professionale e culturale. Come dicevo, il nostro diritto si è liberato da troppo poco di leggi retrograde e patriarcali la cui eco rimane ben radicata e ovattata nel tessuto sociale. Questo fa sì che uomini e donne che operano nel sistema giudiziario debbano fare uno sforzo costante per liberarsi dei propri inconsapevoli pregiudizi. Quando si affronta un delitto di mafia serve una certa competenza a coloro che interpretano gli indizi e i codici comportamentali degli indagati e delle vittime. Lo stesso deve essere per i delitti di violenza maschile contro le donne. Occorrono chiavi di lettura culturali, formazione e professionalità.
Tuttora le donne in magistratura, nei carabinieri, in polizia, le donne imprenditrici faticano a non sentirsi ospiti nel ruolo che hanno. Faticano a rivendicare la loro diversità e quindi spesso accettano e si omologano al punto di vista maschile che ovviamente tende a ribadire l'assetto di potere che gli uomini hanno costruito nei millenni. Chi ha il potere non vi rinuncia.
Alcune ricerche testimoniano che nei tribunali la “gelosia” è ancora utilizzata come attenuante o condizione che incide sulla valutazione del gesto omicida. Cosa ne pensa?
"Occorre un’alzata di scudi come fu dalla metà degli anni ‘90 contro la mafia"
Penso che sia incompetenza. Viene ridimensionato a sentimento un atto di potere. Un femminicida uccide per affermare il proprio dominio su una donna che ha esercitato il diritto di innamorarsi di un altro uomo, di allontanarsi da lui, di avere una relazione sessuale come anche di studiare, di volere imparare le lingue, di volere guadagnare autonomamente. Non è gelosia. La logica del femminicidio è fredda: la donna che si libera infrange le regole dell’uomo e così depotenzia la sua identità sociale. L’uccisione è la risposta. Nessun giudice competente riduce a fumetto romantico un fenomeno criminale fondato sull'affermazione del potere. Anzi, la gelosia, secondo l'interpretazione ormai decennale della Corte di Cassazione, è un’aggravante non un’attenuante.
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Alcuni casi di femminicidio conquistano l’attenzione pubblica, trasformandosi in momenti di consapevolezza e mobilitazione collettiva, altri non si guadagnano neppure una riga sul giornale. Da cosa dipende?
I media hanno una responsabilità rilevante nel raccontare. Ci sono omicidi che colpiscono più di altri perché mettono insieme ingredienti particolarmente interessanti per la collettività. La visibilità delle persone coinvolte, l’efferatezza, la scabrosità dei particolari intimi: come per tutti i racconti la qualità della storia determina l’interesse degli spettatori. Soprattutto se il gusto di chi riceve la notizia si alimenta di notorietà, sensazionalismo e atrocità. I giornalisti dovrebbero spiegare che la violenza sulle donne è diffusa ovunque, in ogni contesto, al punto da essere stata normalizzata, è quotidiana fino alla morte, è persistente nelle generazioni. Seppure in modo diverso. Oggi ci sono le app di controllo, l’invio di foto intime, la distruzione dell’identità via social.
Gli stereotipi del raptus improvviso per un tradimento, della gelosia per un altro uomo, dell’amore non corrisposto a cui segue l’omicidio passionale hanno l’effetto di colpevolizzare la vittima perché sottointendono che se si fosse comportata diversamente non sarebbe morta. Incredibilmente la donna diventa responsabile di essere stata ammazzata e il femminicida risulta vittima dei sentimenti amorevoli che lo travolgono.
Se i giornalisti non sono formati verso il problema e le sue cause ricorreranno più o meno consapevolmente agli stereotipi narrativi a cui loro stessi sono stati esposti. E il pubblico non capirà il delitto, il suo contesto e il rischio che possa ripetersi, anche nella propria casa, nella propria relazione.
La violenza sulle donne è un fenomeno interclassista e intergenerazionale, molto sfaccettato. Qual è la parte del fenomeno che secondo lei viene denunciata meno?
Non si raccontano tutte le violenze psicologiche, economiche, fisiche che precedono, magari per anni, il femminicidio. Non si racconta l’omertà, la trascuratezza con cui la cerchia sociale, minimizza queste violenze continue. Non si racconta la diffusione di questo sistema di potere che genera uomini violenti. Non si denunciano a sufficienza le vessazioni con cui gran parte delle donne sono costrette a convivere. Per tutta la vita. Non si racconta il loro coraggio per affermare la loro libertà.
Ciò nonostante, l’Italia ha tutte le carte in regola, come società civile, come struttura normativa e come sensibilità collettiva per rispondere alla violenza maschile contro le donne. Occorre un’alzata di scudi come fu dalla metà degli anni ‘90 contro la mafia. E proprio perchè esiste un movimento sociale, giuridico e culturale antimafia io sono molto ottimista che questo paese un giorno ce la farà.
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