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24 aprile 2025
Tra le tante cose per cui verrà ricordato il dicastero di papa Francesco, scomparso lunedì 21 aprile, c’è sicuramente l’attenzione al carcere e alle condizioni di detenzione che hanno rappresentato un filo che ha legato tutto il suo pontificato. La sua prima visita in un carcere risale al 28 marzo 2013, solo due settimane dopo la sua elezione al soglio pontificio. In occasione del Giovedì Santo si recò all’Istituto penale per minorenni di Casal del Marmo, a Roma, dove celebrò la messa e lavò i piedi a dodici giovani detenuti, tra cui due ragazze (una cristiana e una musulmana). In quell’occasione il Papa, rispondendo alla domanda di un ragazzo detenuto sul perché avesse scelto di essere lì, disse: "È un sentimento che è venuto dal cuore; ho sentito quello. Dove sono quelli che forse mi aiuteranno di più ad essere umile, ad essere servitore come deve essere un vescovo". Al pastificio dell'Ipm di Casal del Marmo, che dà lavoro ai giovani reclusi, è andata anche un'ultima donazione del papa, da 200mila euro.
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Ed è stato un Giovedì Santo, nuovamente in un carcere, anche l’ultimo momento fuori da San Pietro a cui il Papa ha partecipato prima della sua scomparsa. Lo scorso 17 aprile, nonostante le sue condizioni di salute precarie, Francesco ha voluto nuovamente essere a contatto con le persone detenute, scegliendo l’Istituto penitenziario di Regina Coeli a Roma. “A me piace fare tutti gli anni quello che ha fatto Gesù il Giovedì Santo, la lavanda dei piedi, in carcere”, ha detto il Papa in quest’occasione.
Nel mezzo di questi due eventi che simbolicamente hanno aperto e chiuso il suo Pontificato, c’è stata, come si diceva, un’attenzione profonda e non scontata. Culminata lo scorso 26 dicembre con l’apertura di una delle Porte Sante giubilari nel carcere di Rebibbia. "È un bel gesto (il primo nella storia dei giubilei, ndr) quello di aprire le porte che significa cuori aperti. Questo fa la fratellanza. I cuori chiusi non aiutano a vivere. La grazia di un Giubileo è spalancare, aprire. Soprattutto i cuori alla speranza”. Proprio in occasione del Giubileo Papa Francesco ha fatto più volte riferimento a provvedimenti di clemenza. Già nella Bolla di indizione del Giubileo 2025, intitolata Spes non confundit ("La speranza non delude"), il Pontefice aveva rivolto un appello ai governi affinché adottino provvedimenti di clemenza nei confronti delle persone detenute, promuovendo una giustizia penale aperta alla speranza e al reinserimento sociale.
Nella stessa Bolla, il Papa aveva esortato i credenti, specialmente i pastori, a farsi interpreti delle istanze dei reclusi, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, il rispetto dei diritti umani e l’abolizione della pena di morte. Insomma un richiamo forte per costruire una giustizia più umana e misericordiosa, in linea con il messaggio di speranza del Giubileo.
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Non solo parole e gesti, ma anche azioni, come quelle che nel luglio del 2013 portarono il Papa, motu proprio, ad abolire la pena dell’ergastolo in Vaticano e a introdurre il reato di tortura. Due temi che pochi mesi dopo, nell’ottobre del 2014, saranno al centro di uno dei più importanti discorsi in materia penale che il Pontefice abbia pronunciato. L’occasione era l’incontro con la delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale. In quella sede, di fronte a giuristi e magistrati, Papa Francesco definì l'ergastolo come una "pena di morte nascosta", sottolineando come questa privi il condannato della speranza e della possibilità di redenzione.
Sulla tortura, invece, denunciò questa pratica inumana soprattutto in riferimento all’isolamento che le persone soffrono nelle carceri di massima sicurezza che può causare gravi sofferenze psichiche e fisiche. Ma, affermò il Papa, “Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena”.
In quell’occasione il Papa mise in guardia anche contro il populismo penale, con una dichiarazione che vale la pena riportare per intero:
“In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale.
Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste”.
"Mi chiedo: perché loro e non io? Questa domanda mi accompagna sempre quando visito un carcere"Papa Francesco - Visita a Rebibbia il 17 aprile 2025
Mise dunque in guardia sulla necessità di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana. Un pensiero che torna anche nel suo ultimo incontro del 17 aprile scorso quando alle persone detenute disse: "Mi chiedo: perché loro e non io? Questa domanda mi accompagna sempre quando visito un carcere". Una frase che è al centro del suo pensiero e che ancora la commissione di un reato non a innate presunte propensioni criminali, ma a contesti di emarginazione che violano la dignità delle persone, che negano i diritti e che spesso conducono sulla strada della violenza e del crimine.
Se c’è una cosa che lascia dunque in eredità Papa Francesco è l’idea di una pena che rispetti l’uomo, ma che, ancor di più, non cancelli mai la speranza. "Non lasciatevi rubare la speranza. Sempre con la speranza, avanti!” disse quel lontano 28 marzo 2013 nel carcere minorile di Casal del Marmo. E in nome della speranza sarebbe un segno importante che i governi facciano proprie le parole che Papa Francesco ha seminato nei suoi dodici anni di pontificato, con gesti e atti che sappiano restituire quella speranza a chi oggi è in carcere.
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