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Aggiornato il giorno 29 aprile 2022
"Mai più bambini in carcere". La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha lanciato l’appello lo scorso dicembre, durante il rinnovo della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, per poi ripetersi due mesi dopo dinanzi alla Commissione parlamentare per l’infanzia, segno che la questione le sta particolarmente a cuore. "Occuparsi delle detenute madri – ha spiegato – vuol dire occuparsi dei bambini innocenti che, loro malgrado, sono costretti a conoscere e sperimentare il carcere. Reclusi loro stessi, insieme alle madri".
Oggi in Italia vivono in regime detentivo 16 donne e 19 bambini (come sottolineato nell'ultimo rapporto di Antigone) e la maggior parte di loro risiede negli Istituti di custodia attenuata per detenute madri (Icam), strutture nate con la legge 62 del 2011 che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto garantire ai minori fino ai sei anni (in alcuni casi fino ai dieci) la convivenza con la madre in spazi lontani dal carcere. Nel nostro Paese, al momento, ne esistono cinque: a Milano, Torino, Venezia, Lauro (Avellino) e Senorbì (Cagliari), quest’ultimo mai entrato in funzione perché “boicottato” dalle mamme stesse che, temendo di rimanere troppo isolate, hanno preferito restare nelle loro celle a Cagliari e Sassari. A Milano, Torino e Venezia gli Icam sorgono addirittura all’interno del carcere ed è impossibile per i bambini, che si muovono a due passi dalle altre celle e devono oltrepassare i cancelli per andare a scuola, non respirare l’aria del penitenziario. "L’Icam nasceva con l’idea di una struttura fuori dal carcere, ma si sta carcerizzando sempre di più", spiega a lavialibera Daniela de Robert, vicegarante nazionale dei diritti delle persone private di libertà personale.
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Un’alternativa esiste ed è rappresentata dalle case famiglia protette, edifici riconvertiti per ospitare le mamme e i loro figli in un contesto che con la prigione non ha nulla a che vedere. Oggi ne esistono due, una a Roma e l’altra a Milano. La Casa di Leda, voluta dalla giunta Marino, sorge in un bene confiscato alla criminalità organizzata ed è gestita pubblicamente mentre quella del capoluogo lombardo è diretta da un privato convenzionato. Il modello funziona, ma necessita di organizzazione, finanziamenti e, soprattutto, di un cambiamento culturale. "Dei bambini in carcere ci scandalizziamo sempre tutti, ma poi nessuno vuole avere queste strutture nel proprio quartiere. Non dimentichiamoci che bisogna anche sensibilizzare i cittadini, in tanti pensano siano pericolose", avverte de Robert.
Paolo Siani, deputato del Partito democratico, è il promotore di una proposta di legge che, fra le altre cose, prevede l’obbligo per lo Stato di finanziare queste strutture e per il ministero della Giustizia di stipulare convenzioni con gli enti locali per individuare gli spazi idonei. "Ho cercato di capire come poter migliorare la norma 62/2011 e dare a questi bambini almeno una parvenza di normalità. Spesso, come nel caso della Casa di Leda a Roma, si tratta di una soluzione abitativa addirittura migliore rispetto a quella in cui hanno vissuto prima. Le modifiche vogliono impedire che i bambini varchino la soglia del carcere".
C’è un altro aspetto da risolvere: di frequente le autorità sono informate della presenza di un minore solo dopo l’arresto della madre. Ecco perché è necessario inserire una voce all’interno del verbale che permetta di pianificare subito il percorso migliore.
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"Non esistevano finanziamenti ad hoc - continua Siani - nella legge di bilancio di due anni fa passò un emendamento per stanziare quattro milioni e mezzo di euro da destinare, dal 2021 al 2023, a nuove case famiglie protette nelle regioni in cui erano già presenti gli Icam". E anche per quanto riguarda gli Istituti, il rischio è che il sottoutilizzo o il loro totale inutilizzo siano percepiti come un costo inutile.
Infine, un altro aspetto da non sottovalutare riguarda il bilanciamento tra la tutela dei minori – il diritto a non essere privati della libertà – e quella alla genitorialità. "La possibilità di tenere i figli fino ai dieci anni va in questa direzione – conclude de Robert – la priorità sono sempre i più piccoli, ma dobbiamo anche superare lo stigma che una donna detenuta sia una cattiva madre".
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