
Don Italo Calabrò, pioniere dell'antimafia sociale

10 settembre 2020
Piove a Vucjak, nel campo profughi più grande della Bosnia. L'ultimo paese prima di arrivare in Croazia. Il punto di confine. Un freddo umido che entra nelle vene e non trova sollievo. Sorge su una ex discarica l'enorme campo profughi che ospita esseri umani provenienti prevalentemente dall'Afghanistan, dal Pakistan e dalla Siria. Un'immensa distesa di tende da campo, a svettare c'è lo stemma della Croce rossa internazionale, ma ormai anche quello è sbiadito e ricoperto di fango e sporcizia. Cumuli di immondizia fanno compagnia a centinaia di ragazzini scalzi che camminano nel fango. Non ci sono adulti qui. Si mettono in coda per accaparrarsi il pasto caldo offerto dalla Caritas. Alcuni non hanno ancora compiuto sedici anni, adolescenti che aspettano una zuppa rossa fumante prelevata da enormi pentoloni e servita insieme a un tozzo di pane. È l'unico pasto della giornata e la pioggia non turba in alcun modo l'attesa, la fame non si bagna.
Lo sguardo di questi adolescenti è già da adulti, segnato dal freddo, dalla stanchezza e dalla malattia. Non da ultimo dal lungo viaggio che li ha portati fin qui.
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Con i criptofonini, i clan della Locride gestivano il narcotraffico internazionale da San Luca, paese di tremila anime arroccato sull'Aspromonte jonico. Tramite il "denaro volante", sistema informale di trasferimento di valore gestito da cinesi, con contatti a Dubai, pagavano la droga ai cartelli sudamericani. Con il beneplacito dei paramilitari, tonnellate di cocaina partivano da Colombia, Brasile e Ecuador per poi raggiungere il vecchio continente grazie agli operatori portuali corrotti dei principali scali europei. L'ultimo numero de lavialibera offre la mappa aggiornata degli affari della 'ndrangheta, così per come l'hanno tracciata le ultime indagini europee, in particolare l'operazione Eureka