10 settembre 2020
Piove a Vucjak, nel campo profughi più grande della Bosnia. L'ultimo paese prima di arrivare in Croazia. Il punto di confine. Un freddo umido che entra nelle vene e non trova sollievo. Sorge su una ex discarica l'enorme campo profughi che ospita esseri umani provenienti prevalentemente dall'Afghanistan, dal Pakistan e dalla Siria. Un'immensa distesa di tende da campo, a svettare c'è lo stemma della Croce rossa internazionale, ma ormai anche quello è sbiadito e ricoperto di fango e sporcizia. Cumuli di immondizia fanno compagnia a centinaia di ragazzini scalzi che camminano nel fango. Non ci sono adulti qui. Si mettono in coda per accaparrarsi il pasto caldo offerto dalla Caritas. Alcuni non hanno ancora compiuto sedici anni, adolescenti che aspettano una zuppa rossa fumante prelevata da enormi pentoloni e servita insieme a un tozzo di pane. È l'unico pasto della giornata e la pioggia non turba in alcun modo l'attesa, la fame non si bagna.
Lo sguardo di questi adolescenti è già da adulti, segnato dal freddo, dalla stanchezza e dalla malattia. Non da ultimo dal lungo viaggio che li ha portati fin qui.
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