6 maggio 2020
Nelle lunghe e travagliate settimane di lockdown, l’informazione è stata monopolizzata dalla discussione sul virus, sulle sue conseguenze sanitarie, sociali ed economiche. Accanto a questo obbligato macro-tema, la scena pubblica è stata occupata anche da alcuni altri sotto-temi che, come rivoli carsici del grande flusso informativo, straripavano di tanto in tanto dalle pagine dei quotidiani e dagli studi televisivi. Uno di questi rivoli, autorevolmente alimentato da magistrati di primo piano e da opinionisti di punta, riguarda il nesso tra mafie e virus o, per meglio dire, l’impatto che la situazione eccezionale e di crisi ha avuto, sta avendo e avrà sullo sviluppo delle mafie. Da Gratteri a Saviano, da Morra a Cafiero De Raho e a Pignatone, il coro è stato unanime nel segnalare il forte e concreto rischio di una speculazione mafiosa dell’emergenza. Gli argomenti di questo allarme condiviso sono tre. Il primo riguarda la bulimia economica delle mafie che potrebbero approfittare delle difficoltà contingenti di molte imprese per “aiutarle” sul piano finanziario, con lo scopo poi di impossessarsene. Il secondo rimanda al consenso sociale che le mafie lucrerebbero presso ampie fasce di popolazione colpite dalla crisi e che lo Stato, con la sua burocratica inefficienza e lentezza, non sarebbe in grado di sostenere. È la tesi delle mafie (specie la camorra) come welfare parallelo che ogni tanto affiora nel dibattito pubblico. Infine, il terzo aspetto sul quale puntano i riflettori magistrati e opinionisti riguarda la capacità dei mafiosi di intercettare i flussi di denaro che accompagneranno l’uscita dalla crisi.
I mafiosi non provengono da un altro pianeta e subiscono gli effetti dello stop delle attività sociali ed economiche al pari di tutti gli altri
Questa discussione guarda, però, solo a un lato della medaglia o, se si vuole, al bicchiere mezzo vuoto. Un’analisi più ampia e realistica dovrebbe invece contemplare anche le vulnerabilità specifiche delle mafie che la crisi da coronavirus porta con sé. I mafiosi, infatti, non provengono da un altro pianeta e subiscono gli effetti dello stop delle attività sociali ed economiche al pari di tutti gli altri. Ciò vale per le attività esplicitamente illegali (traffico di droga, estorsioni ecc.) e per quelle formalmente legali (attività commerciali, costruzioni, ristorazione ecc.). Insomma, le mafie non sono sempre e comunque in attivo, non sempre accumulano ricchezze su ricchezze. Subiscono anche loro perdite e costi, mandano imprese in malora e bruciano capitali investiti. Le loro attività e i loro investimenti sono incerti e fragili come quelli di tutti. Anzi, lo sono ancor di più proprio perché illegali e dunque soggette al controllo e al contrasto, molto serrato ed efficace – soprattutto negli ultimi anni, anche grazie alle misure contenute nella riforma del Codice antimafia del 2017 – dell’azione della magistratura e delle forze dell’ordine che confiscano imprese e mettono in galera i suoi esponenti. Costi non trascurabili per nessuna organizzazione, comprese quelle mafiose. Se a questo aggiungiamo le recenti misure di sostegno alle imprese varate dal governo, con la tracciabilità dei finanziamenti erogati dalle banche e garantiti dallo Stato che potrebbero costituire, se gestiti in modo opportuno, una forma ulteriore di controllo capillare per movimenti di capitale sospetti, otteniamo un quadro che può mettere in seria difficoltà i circuiti delle imprese mafiose e para-mafiose.
La crisi, dunque, apre alcune finestre di opportunità per i mafiosi, ma ne chiude altre. Vista l’estrema variabilità interna delle mafie – ci sono gruppi ricchi e gruppi poveri, gruppi con connessioni internazionali e gruppi “provinciali”, gruppi ben introdotti nelle reti relazionali che contano e altri che da tali reti sono esclusi e così via – potremmo anche dire che la crisi apre finestre per alcuni gruppi e le chiude per altri. Per guardare al risvolto della medaglia, che è poi anche il bicchiere mezzo pieno, è però opportuno fermarsi a riflettere sulle finestre di opportunità che si potrebbero spalancare, in questo frangente di crisi, per l’azione dell’antimafia.
Su questo versante occorre considerare che in queste settimane di lockdown e nel tempo a venire di apertura parziale delle attività, che non sappiamo quanto si protrarrà, ma di certo comporterà una diversa e più stringente regolazione della mobilità e dell’utilizzo dello spazio pubblico, le mafie subiscono e subiranno danni nella capacità di realizzare traffici illegali e in uno dei caposaldi stessi del loro potere, vale a dire il controllo del territorio.
L’azzeramento dei trasporti internazionali e lo stretto controllo degli spostamenti tra regioni colpiscono pesantemente i traffici di droga e di contrabbando, due tra le principali voci di bilancio delle mafie. E questo riguarda ancora di più la gestione dello smercio al dettaglio di stupefacenti attraverso le piazze di spaccio, che è resa problematica dalla drastica riduzione della libertà di movimento e dalla conseguente maggiore puntualità della presenza e azione di contrasto da parte delle forze dell’ordine. Per quanto le mafie possano avvalersi di vettori alternativi e riformulare l’organizzazione dello spaccio, è evidente a tutti come le mutate condizioni producano una perdita secca di proventi illeciti e una opportunità di repressione mai sperimentata prima. Analoghe considerazioni si potrebbero fare su altre attività mafiose, come il racket delle estorsioni che le mafie sono state giocoforza costrette a sospendere e che alla ripresa andrà senz’altro “ripensato”, con l’occasione per lo Stato di intercettare e contrastare questo ripensamento.
L’oggettiva maggiore difficoltà di affermare in modo esplicito il controllo mafioso del territorio pone in una condizione di vantaggio lo Stato soprattutto nei territori, come le periferie delle grandi città, dove più forte è la capacità di assoggettamento dei gruppi criminali nei confronti dei cittadini. Si apre così una breccia nelle fondamenta del potere mafioso, che sarebbe possibile sfruttare per realizzare un nuovo patto con i cittadini più in difficoltà e perciò più esposti al giogo o alle sirene della criminalità organizzata.
In queste settimane di emergenza sociale, nei quartieri più poveri delle nostre città, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, si è vista una grande mobilitazione solidale: una fitta rete di associazioni, parrocchie, comitati di cittadini, singoli volenterosi, a vote ben coordinati dalle istituzioni locali, ha realizzato un’azione di sostegno senza precedenti. E le stesse istituzioni, governo e regioni in primis, hanno varato misure straordinarie, che pur con tutti i ritardi e le inefficienze, segnano uno sforzo imponente (il solo governo ha stanziato 400 milioni per i buoni spesa). Occorrerebbe partire da qui, dalle tante risorse messe in campo dalla società legale, la cui luminosità offusca qualche sporadico caso – ma subito raccolto e amplificato dai media – di aiuto mafioso a nuclei familiari in difficoltà, per costruire una nuova legittimazione dello Stato che sottragga terreno alle mafie.
Secondo il ministro Provenzano, le associazioni stanno garantendo la tenuta democratica del Paese contro le mafie
Dopo il lungo confinamento, insieme alle porte di casa e alle saracinesche degli esercizi commerciali si riapriranno anche le finestre di opportunità nella lotta alle mafie. Bisognerà capire se e come da queste finestre le Istituzioni e la società civile sapranno affacciarsi.
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