Il trapper Minur
Il trapper Minur

Dalla comunità per minori al palco, Baby Gang e gli altri trapper: "Non siamo cattivi, cresciamo col rancore"

La comunità per minori in difficoltà di don Claudio Burgio nella periferia di Milano ospita 50 ragazzi, tra cui quattro rapper: Baby Gang, Simba La Rue, Sacky e Minur. La musica è una via di fuga per chi dice "quando ti chiudono tutte le porte, impari ad aprirle, con le buone o le cattive"

Francesca Dalrì

Francesca DalrìGiornalista, il T quotidiano

21 luglio 2021

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"Sono stato il primo artista in Italia a uscire dal carcere con un permesso di lavoro per andare a registrare canzoni: dentro lo studio mando a fanculo le forze dell’ordine, fuori la scorta penitenziaria non dice niente". A parlare è il rapper Baby gang, nome d’arte di Zaccaria Mouhib: 20 anni, migliaia di follower su Instagram e milioni di ascolti su YouTube e Spotify. "Dal 2012 ogni estate l’ho passata o in galera o in comunità. Sono stato a Rimini, a Bologna, nelle Marche, a Brescia, mi hanno fatto girare dappertutto pensando che mi cambiavano e invece non mi hanno cambiato". Il racconto della propria esperienza Baby gang l’ha affidato alla sezione musicale della rivista Vice, la sua prima e unica videointervista: "Questi ragazzi non ne vogliono sapere di parlare con i giornalisti", ci spiega Claudio Burgio, dal 2005 cappellano al Beccaria, il carcere minorile di Milano. Nel 2000 ha fondato Kayròs (in greco "momento favorevole", "tempo giusto per"), associazione che gestisce comunità di accoglienza per minori e giovanissimi in difficoltà. Nella sede di Vimodrone, 16mila anime nella periferia nord di Milano, ospita una cinquantina di ragazzi, tra cui quattro rapper: Baby gang, Simba La Rue, Sacky e Minur. Per tutti loro la comunità di don Burgio ha funzionato per una precisa ragione: la musica.

Si fa presto a dire baby gang

"Sono andato da don Claudio quando avevo appena fatto uscire Street che aveva 200mila visualizzazioni, non era manco chissà cosa, ma lui ha creduto in me fin dal giorno zero – spiega Baby gang –. Mi faceva andare in studio anche quando gli assistenti sociali non erano d’accordo, perché lui non guarda i fogli della legge, ma la persona, ed è questo che serve: un ragazzo lo si aiuta a quattr’occh". Per Zaccaria (Baby gang) l’accoglimento del suo sogno musicale – come lo chiama don Burgio – è stato tanto importante da aver spinto il ragazzo che cambiava una comunità all’anno a chiedere di rimanere anche dopo la fine della messa alla prova: una misura che prevede la sospensione del processo e l’affidamento ai servizi sociali per un percorso che, se va a buon fine, estingue il reato. Proprio per aiutare i ragazzi a guadagnare autonomia, dal 2006 Kayròs ospita un progetto in appartamento per ragazzi maggiorenni che hanno già concluso il percorso in comunità. Qui possono crescere senza la continua presenza di un educatore, cercare un lavoro, costruirsi un futuro. "Dal tribunale ai servizi sociali, in molti ci chiedono perché lo facciamo. Il fatto è che i tempi giuridici non corrispondono ai tempi di crescita di un ragazzo – spiega don Burgio –. Ho visto ragazzi cambiare in dieci anni, magari passando due o tre volte dal carcere".

Rapper per lavoro

A 16 anni ho provato a lavorare in nero. Sono durato un giorno. Volevo anche continuare la scuola, ma ormai ero troppo grande. A volte mi chiedo se la musica mi farà mangiare per tutta la vita. Mal che vada si torna in strada"Minur - Trapper

"Quando esco dalla comunità spero di spaccare con la musica e stare tranquillo nel mio bel villone. Non è facile però è bello vivere, non sopravvivere". Islam, in arte Minur (uno dei quattro rapper della comunità), ha diciotto anni e alle spalle dieci mesi trascorsi tra il carcere minorile Cesare Beccaria di Milano e il Ferrante Aporti di Torino. Parla di "misura cautelare", "perdono giudiziario" o "coimputati" con la facilità con cui altri suoi coetanei organizzerebbero il viaggio di maturità, ma se gli scappa una parolaccia, subito si scusa. Lo incontriamo in una giornata speciale: è appena uscito dal carcere e accetta di raccontarsi. "Non facciamo foto o video però – chiede subito in cerca di rassicurazioni –. Sono uscito oggi e sto messo malissimo", spiega mentre si sistema il cappellino. Finora Minur ha pubblicato due singoli: Benvenuto a casa e Hasta luego, rispettivamente 104mila e 690mila visualizzazioni su YouTube. Su Spotify il secondo ha totalizzato due milioni e mezzo di ascolti. "Sincero, non me l’aspettavo, anche perché sono fermo da un anno. Ho buttato queste due canzoni e dopo 15 giorni mi hanno arrestato".

Il narcisismo adolescenziale è una componente importante nella violenza degli adolescenti

Vivere della propria musica non sarà facile. Non per tutti, perlomeno, e non per tutta la vita. I ragazzi lo sanno. Alcuni di loro un’alternativa l’avevano anche cercata. "A 16 anni ho provato a lavorare, in nero – ci racconta Minur –. Ho fatto il cameriere e il muratore. Come elettricista sono durato un giorno. Volevo anche continuare la scuola, ma ormai ero troppo grande. A volte mi chiedo se la musica mi farà mangiare per tutta la vita. Mal che vada si torna in strada", dice ridendo. "All’inizio li consideravamo tutti dei folli – ci confida don Burgio –. Io stesso con i ragazzi, pur riconoscendone le qualità e competenze, parlavo sempre di piano a e piano b: questo è il tuo sogno ideale, poi c’è la realtà. Ma per loro non è solo un hobby: è diventato un lavoro. Noi comunque continuiamo la nostra opera di coscientizzazione e responsabilizzazione, perlomeno per far capire che si tratta di un fenomeno commerciale in cui tutto è mercificato, pure le amicizie".

Ragazzi di strada

“Le nostre madri sanno che se finiamo in carcere non è perché siamo violenti, ma forse perché abbiamo bisogno di qualcosa. Non siamo cattivi, abbiamo una mentalità di strada. Siamo cresciuti col rancore"

I video musicali di questi ragazzi sono stati spesso definiti violenti perché mostrano pistole (vere), scene di rapine e spaccio. Ma Minur non ci sta: "Se parlo di bella vita faccio un video su uno yacht con ragazze e bottiglioni, ma io racconto la periferia e in periferia girano droghe, armi, cose rubate. Se mostro una pistola non è un messaggio di violenza, racconto solo la mia realtà". Una realtà che nessuno gli ha dovuto insegnare: "Queste cose non le impari, ci cresci – risponde Minur quando gli chiediamo come abbia imparato a spacciare e rapinare –. Appena compiuti 14 anni ho rubato un Peugeot. Per tre giorni ho girato in macchina, ero felicissimo. Poi abbiamo beccato una pattuglia. Con i miei amici ci siamo messi a ridere perché già da tempo facevo reati, mi portavano in questura, mia madre firmava e io uscivo. Quel giorno invece ho scoperto di essere imputabile e mi sono beccato una denuncia". "Le nostre madri sanno che se facciamo una minchiata o finiamo in carcere non è perché siamo violenti, ma forse perché abbiamo bisogno di qualcosa – prosegue Minur –. Non siamo cattivi, siamo solo ragazzi che hanno un’altra mentalità, di strada, che chiedono aiuto. Cresci con il rancore perché quel vestito tua madre o tuo padre non se lo possono permettere e allora te lo prendi da solo. La maggior parte dei reati che abbiamo fatto nasce da questo rancore. Quando ti chiudono tutte le porte in faccia, impari ad aprirle, con le buone o con le cattive". Non solo periferie. Dal suo osservatorio al Beccaria don Burgio ci mette però in guardia: "Non è solo questione di periferie: il disagio dei ragazzi è trasversale".

Se la scuola esclude, le mafie avanzano

A confermarlo è anche Martina Galli, responsabile di Andem ("andiamo" in dialetto milanese), versione locale di Amunì, il progetto dell’associazione Libera nato a Palermo e rivolto a ragazzi sottoposti a procedimento penale, impegnati in un percorso di riparazione. "Su 10 ragazzi che accompagniamo ogni anno, ce ne sono sempre due o tre che hanno la villetta o fanno le vacanze all’estero – ci racconta Galli –. Sono ragazzi con profonde solitudini, con fatiche relazionali mai affrontate. Questo a dire il vero è il tratto che li accomuna tutti". Spesso il vero problema nel percorso è la famiglia. "Nella nostra esperienza quando la messa alla prova fallisce è perché la famiglia non aderisce al percorso", afferma Galli. Come nel caso di Pietro (il nome è di fantasia) che quest’anno è stato arrestato dopo poche settimane di percorso. "Abbiamo scoperto dell’arresto dall’educatrice dei servizi sociali perché la madre non rispondeva più dalla sera prima". O come nel caso di Minur, che non vede il padre da anni perché in carcere. "Tutti i ragazzi intercettati della giustizia minorile hanno un portato familiare pesante marchiato o dall’assenza di uno o di entrambi i genitori o dalla presenza di una figura adulta problematica: la mamma bipolare o che si prostituisce, il padre alcolizzato o in carcere. A volte sono figure sopra le righe, disattente rispetto ai bisogni dei propri figli", conclude Galli. "La famiglia italiana è in crisi – conferma Burgio –. Da un lato ci sono adulti schiacciati nel mito dell’eterna giovinezza che cercano di essere amici dei propri figli, dall’altra famiglie talmente distanti dal mondo dei figli da non sapere nemmeno cosa sia Instagram e che così finiscono per demonizzare fenomeni come la musica trap amata dai giovani. È la banalità del bene, quel perbenismo che i ragazzi non sopportano. Servirebbero invece adulti in grado di stare nel mezzo, diversi dai propri ragazzi ma capaci di accogliere l’inguardabile".

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