15 gennaio 2021
Un difetto la periferia ce l'ha: fa molto caldo. Ma Alessandro Mahmud, in arte Mahmood, la sua vita a Milano sud non la cambierebbe. C’è nato e per lui è "semplicemente casa". Al di là del legame affettivo, la parola periferia gli sembra priva di senso. Così come la distinzione tra periferia e centro. "Due etichette che ormai significano poco o nulla – dice –. Non percepisco una differenza così netta e penso valga lo stesso per molti miei coetanei".
Ragazzi e ragazze che, come lui, sono cresciuti a Gratosoglio. Qui il cantante ha scelto di continuare a vivere e sta trascorrendo il lockdown, lavorando al secondo album che uscirà il prossimo anno. Anche se non è facile: "Da quando la pandemia ci ha confinati in casa, ho il morale a terra. Sono abituato a scrivere in movimento".
Il primo disco – Gioventù bruciata – è nato sui mezzi. Ascoltarlo è come fare un giro per Gratosoglio: il Naviglio Pavese, il campetto da basket di fronte alle sue scuole medie che ha appena ristrutturato, con l’aiuto di Kappa e del Comune di Milano, e via Ulisse Dini, dove con Levi’s ha aperto una stanza per la musica. Strade che le cronache descrivono come luoghi di spaccio, rapine, violenza. Mahmood parla di una realtà diversa: una vita "normale". "Da bambino, al mattino andavo a scuola e di pomeriggio, dopo i compiti, giocavo con gli amici".
Tutto qui. E il disagio sociale? "Anche il troppo agio può creare danni. Ho visto molti figli di papà spacciare. I problemi sono dappertutto". E il razzismo? "Mi sono reso conto che esiste ancora a Sanremo. È stata una delusione. Credo, però, che il problema sia della generazione precedente. Non della nostra. Fin dalle elementari ho avuto compagni cinesi e amici del Senegal. Quasi tutte le persone che conosco hanno genitori di origine mista, come nel mio caso. È un peccato che chi nasca nel nostro Paese da mamma e papà stranieri non abbia subito la cittadinanza italiana. Ne avrebbe diritto".
È la normalità della periferia che ancora "fa strano" a chi non la vive. A doverci fare i conti è stato lo stesso Mahmood, quando la sua vittoria al festival della canzone italiana è diventata un caso politico per via delle origini del papà: un egiziano, andato via di casa quando lui aveva cinque anni. Fu costretto a chiarire di essere italiano al cento per cento: nato a Milano, da mamma sarda.
In molti l’hanno definito un simbolo del riscatto sociale della periferia. Un'etichetta che l'ha fatto e lo fa arrabbiare tutt'ora. "Non voglio essere un simbolo – dice –, semmai solo un buon esempio. Come ce ne sono tanti. Alcuni miei vecchi amici sono diventati insegnanti di danza. Mia cugina, cresciuta nel mio stesso quartiere, è una psicologa. Le persone come loro, anzi come noi, sono la maggioranza".
Consigli a chi vuole raccontare la periferia nel modo corretto? "Dire la verità, cioè che la realtà è complessa. La vita è un mix, ma sono convinto che la differenza la fanno le persone: le opportunità e i luoghi in cui vivi contano, ma contano di più l’impegno, il cuore e la testa che ci metti nel fare le cose". E ai giovani che abitano in periferia? "Ne ho incontrati tanti con un potenziale enorme. A loro dico quello che direi anche ai giovani del centro: non fate cazzate".
Da lavialibera n° 6 novembre-dicembre 2020
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