5 marzo 2021
Cresci nella periferia nord di Torino e ti dicono che è come crescere in uno stereotipo. In una realtà che sembra non poter migliorare mai, ma è condannata a somigliare a se stessa per sempre. Com’era in passato, è nel presente e così sarà in futuro. Significa imparare presto a cavarsela da soli, fare a cazzotti per un campetto, ascoltare gli anziani che ti insultano perché sei giovane, diverso e fai troppo casino. Vuol dire giocare a pochi metri dagli spacciatori, in quadrati di cemento ombreggiati dagli olmi che d’autunno si riempiono di foglie secche.
Come succede in piazza Alimonda, diventata un fronte di battaglia per le associazioni di quartiere che vogliono liberarsi dei pusher e, per dimostrare che quello spazio non è roba loro, ma roba di tutti, hanno disegnato sul pavimento un campo di pallavolo e dei giochi per bambini. Uno è la classica campana, ma a ogni casella è stata associata una parola. Nella prima c’è scritto rispetto. Nell’ultima libertà. Anche se crescere nella periferia nord di Torino libertà significa non averne e si finisce ingabbiati nelle statistiche. I dati dicono che se nasci qui hai più probabilità di avere dei genitori di origine straniera e una famiglia numerosa che condivide poche stanze. Che sei più a rischio di mollare la scuola e di ritrovarti disoccupato, con un lavoro precario o in nero.
Se nasci qui hai più probabilità di avere dei genitori di origine straniera e una famiglia numerosa che condivide poche stanze, sei più a rischio di mollare la scuola e ritrovarti disoccupato
Se cresci qui, devi anche abituarti al fatto che il tuo quartiere finisca sui giornali. "Scrivono solo cazzate", sbotta Miriam, che è arrivata in Italia dal Marocco quando era poco più di una neonata, ha 16 anni e tutta la schiettezza di una ragazza di quell’età. Uno degli undici fermati e dei cinque denunciati per i disordini che il 25 ottobre scorso hanno devastato il centro della città, con attacchi alle forze dell’ordine, è amico suo: "L’ha fatto per divertimento e un po’ per moda. Siamo nell’età del 'Fuck the police', no?! Chi ha i soldi può avere tutto, chi non li ha è disposto a tutto per averli. Ma fare cazzate fa parte dell’adolescenza, mica a venticinque anni sarà un delinquente". Crescere nella periferia nord di Torino significa considerare "bravate giovanili" anche cose così.
Nel mezzo ci sono sfumature di una complessità che si sottrae alla narrazione. Ci sono loro, ragazze e ragazzi che, riassume Bader, per gli spritz vanno tutti da Sasha, il caffè lo prendono da Toni, il mango e i samosa da Ridoi, il bangla. Loro che ogni volta vedono la cronaca mortificare tutte le cose belle del quartiere, come la solidarietà, le diverse culture e la condivisione delle tradizioni. Loro che vengono etichettati per la nazionalità di mamma e papà, pure se hanno sempre vissuto nel nostro Paese.
“Siamo bollati per il nostro nome. Arriva prima di tutto il resto e non si ha la possibilità di farsi conoscere”
Ikram ha 21 anni, studia scienze infermieristiche, e vive in un appartamento di quaranta metri quadri. In casa sono nove – "hai capito bene, nove" –: la mamma, il papà e tre fratelli, di cui uno ha famiglia. Anche se il lockdown lo impedirebbe, per fare una chiacchierata al telefono è uscita fuori, perché dentro "è la terza guerra mondiale". "Oltre le difficoltà familiari, viviamo il pregiudizio di essere bollati per il nostro nome – dice –. Molto spesso arriva prima di tutto il resto e non si ha la possibilità di parlare, farsi conoscere. Io, nel mio piccolo, sto facendo la mia vita dimostrando di essere di più di come mi chiamo. Ma lo sto facendo per me, non mi sento di doverlo provare agli altri: l’inclusione dovrebbe avvenire senza sforzi".
Nell’immaginario collettivo la periferia nord di Torino coincide con due quartieri: Aurora e Barriera di Milano, rispettivamente circoscrizione sette e sei. A separarli dalla città è il fiume Dora che, come uno spartiacque, divide ciò che è centro da ciò che non lo è. I salvati, i ricchi, dal multiforme mondo dei sommersi: nuovi immigrati e operai in pensione, ma anche studenti e giovani professionisti a partita Iva, attirati dai prezzi stracciati degli affitti. Per raggiungere da qui via Roma, con i suoi negozi di lusso, le vetrine di Gucci, Dior e Chanel, bastano quindici minuti a piedi. La prossimità al centro rende evidente, a Torino più che altrove, un fatto: la periferia non è un luogo geografico, ma ciò che la politica vuole, o non vuole, farne.
Marginale, in senso economico e sociale, questa zona lo è sempre stata. I primi immigrati furono i contadini lasciati senza pane dalla crisi agraria di fine Ottocento. Poi è stata la volta dei meridionali, attirati dalle sirene delle grandi aziende siderurgiche e metallurgiche, Fiat in primis. Il loro arrivo è stato talmente massiccio da aver cambiato la toponomastica: la piazza del mercato, prima conosciuta come piazza Foroni, ha oggi il nome di un Comune in provincia di Foggia, Cerignola.
Un immigrato è anche Vittoriano Taus, 81enne presidente di un'associazione per la riqualificazione del quartiere Aurora, nonché ex sindacalista e uno dei fondatori del primo comitato di Barriera di Milano. È venuto dalle Marche, ma il piemontese e il torinese li ha imparati in fretta. "Mica ti parlavano, altrimenti. Il razzismo di adesso è niente a confronto. Fuori dai locali c’erano insegne con su scritto: 'Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali'. E me lo ricordo sì, cazzo, non riuscivo a trovar casa". Succedeva nelle stesse strade in cui ora si vende il kebab e non c’è neanche una trattoria che prepari il vitello tonnato, tipico piatto piemontese.
Ripercorrerle con Taus è come aprire la porta di una macchina del tempo. Entri e scopri che lì, dove adesso si affaccia un barbiere africano, una volta c’era un teatro. Mentre lì, dove adesso c’è un alimentari etnico, anni prima abitava un ferramenta. E lì, al sei di via Cuneo, è nato e cresciuto Gipo Farassino, considerato il caposcuola dei cantautori torinesi. Taus si ferma, toglie il cappello per rendergli omaggio, e quando ne ricorda alcune strofe che raccontano di "case che neanche una volta erano belle", e di "balconi pieni di roba stesa con tante toppe", capisci che rispetto ad allora è cambiato tutto per non cambiar nulla. I balconi hanno altri indirizzi e i loro abitanti nomi diversi, eppure i problemi sono rimasti gli stessi, riflette l’ex sindacalista: "La casa, la sanità, la scuola".
Ma una differenza rispetto al passato c’è e si nota guardando due fotografie color seppia. Una è stata scattata negli anni Settanta in corso Vercelli: una via piena di negozi che la crisi degli inizi del Duemila ha trasformato in una lunga saracinesca abbassata. L’altra è degli anni Cinquanta, quando era ancora in funzione la Grandi motori: fabbrica della Fiat destinata alla produzione di motori così grandi che durante i collaudi facevano tremare il pavimento per decine di metri. Oggi il complesso industriale, che si estende per 72mila metri quadrati, l’equivalente di novanta campi da calcio, è in abbandono. Il nuovo proprietario, il colosso della grande distribuzione Esselunga, vorrebbe farne una residenza universitaria, una biblioteca, un parco e un deposito. Ma la variante urbanistica necessaria all’avvio dei lavori, annunciati per il 2019, non è mai stata approvata e gli operai non si sono più visti.
"Ai miei tempi il lavoro non era un problema – prosegue Taus –. Cercavano operai da tutte le parti, potevi scegliere cosa fare. Adesso invece no. Non solo siamo di nuovo poveri, ma sembra anche che le possibilità di ascesa sociale si siano azzerate. Da ragazzo tenevo le pezze al culo. Negli anni d’oro la mia famiglia è riuscita a comprare quattro macchine per tre persone. Ora ne abbiamo una sola: vecchia e tutta scassata".
I giovani della periferia nord di Torino sono solo i figli del loro tempo, questo tempo: stanno su Instagram, sperimentano TikTok, ascoltano la trap. Gli piace allenarsi, andare a correre e correre veloce. Alcuni si fanno accecare dal mito dei soldi facili. A volte basta farli ragionare perché capiscano che nella vita c’è di più. Altre no. Nicola Pelusi li guarda tirar calci a una palla che in un cielo gonfio di pioggia pare disegnare traiettorie incerte. Fa l’educatore di strada per il Gruppo Abele e, insieme a Cristina e Sadija, con i giovani di queste zone ci lavora da vent’anni. Un lavoro di pazienza che comincia nei campetti perché è solo giocando con loro, sudando con loro, e imprecando con loro, che si guadagna la fiducia dei ragazzi.
In periferia il pallone è più di un pallone, può fare un sacco di cose a cui non si pensa: aprire le porte delle case, scoprire abusi, fragilità, sogni. Nicola lo sa. Sa che ci vuole tempo e qui, al parco Aurelio Peccei, viene da meno di un anno: ancora troppo poco per riuscire a far breccia, ecco perché parla e sospira, sospira e parla. E il vapore che sale su dai bordi della mascherina gli appanna gli occhiali. "Vero, di Barriera e Aurora si parla solo male, forse troppo – dice –, ma il disagio esiste, noi lo tocchiamo con mano tutti i santi giorni. A chi cresce qui può capitare di vedere più di frequente scene di violenza o di spaccio, e il contesto sociale è anche un contesto educativo, negarlo è inutile". Per Nicola il disagio assume la forma di storie, come quella di Mihai, un ragazzo rumeno: aveva una fidanzata che gli voleva un bene dell’anima, poi è finito in un brutto giro, ha iniziato a farsi di cocaina e l’hanno visto prostituirsi dietro al Palazzo Reale, dove la notte si fermano le auto degli uomini ricchi.
"Durante il primo lockdown alle lezioni si collegavano 14 studenti su un totale di 21. Il 30% potrebbe non averlo fatto per mancanza di mezzi"Pierangela Mela - professoressa dell’istituto Beccari
Per gli amministratori, invece, il disagio si traduce in dati: i quattro quartieri della zona settentrionale di Torino ospitano i due terzi delle persone che in città percepiscono il reddito di cittadinanza e sono seguite dai servizi sociali. Il tasso di abbandono scolastico è di circa il dieci per cento. Numeri che la pandemia da Covid-19 rischia di aggravare. Un segnale arriva dai pasti delle mense Caritas che il direttore torinese, Pierluigi Dovis, ha detto essere aumentati del 40 per cento. Mentre Pierangela Mela, professoressa dell’istituto Beccari, sta monitorando quanto succede nella sua scuola e parla di cifre "inaccettabili per chi crede nei valori dell’uguaglianza e della giustizia". Ha notato che durante il primo lockdown alle sue lezioni si collegavano 14 studenti su un totale di 21 e, stando alle richieste di tablet e schede sim che sono arrivate a settembre, ha calcolato che il 30 per cento di loro potrebbe non averlo fatto per mancanza di mezzi.
Crescere nella periferia nord di Torino significa tante cose, belle e brutte, crede Carlotta Salerno, presidentessa della circoscrizione sei (Barriera di Milano), che qui è nata e cresciuta "anche se i miei genitori sono pugliesi", precisa. "La situazione è stratificata e complessa, non esiste il bandolo della matassa. Di certo, i politici non si fanno più vedere per strada: prendere sputi, metaforicamente, è brutto. I cittadini si sentono abbandonati. C’è un forte senso di appartenenza, ma sembra di essere a bordo di una barca senza capitano. Manca un’idea, una progettualità di lungo periodo". Quale futuro se lo chiede anche il presidente della circoscrizione sette, Luca Deri, che per Aurora vorrebbe "un segnale forte". Non come è stato fatto con i 18 milioni di euro previsti per la periferia torinese dal progetto AxTO e che la giunta della sindaca Cinque stelle Chiara Appendino ha deciso di frammentare in tante piccole iniziative. L’hanno definita agopuntura urbanistica e "in pratica non ha cambiato niente da nessuna parte", sostiene Deri. "Il Comune dovrebbe costruire qui il nuovo istituto per l’intelligenza artificiale previsto dal governo. Si stima che porterà in città più di trecento ingegneri. Scegliere che abbia sede da noi sarebbe anche un gesto simbolico".
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È un pomeriggio di novembre, il Piemonte è in zona rossa e, in teoria, nessuno potrebbe uscire di casa se non per "comprovati motivi di lavoro". Ma il tram numero quattro che, attraversando tutta la periferia, va dalla stazione di Porta Nuova alla Falchera, estremità nord di Torino, è pieno. Oltre la Dora la vita scorre come sempre. Ivano Casalegno non abita qui, ma qui è impegnato con un’associazione: si chiama Arteria e fa attività educative su strada. Per lui borgo Aurora non è come lo descrivono, crescere qui significa che ci trovi "case di merda e case belle". Ovvero che ci trovi un po’ di tutto e di questo di tutto un po’ ce ne dovrebbe essere di più perché "è diversità e diversità è ricchezza". "Invece per risolvere i problemi pensano di sostituire le persone che abitano la zona", accusa. I sociologi la chiamano gentrificazione: si trasforma il quartiere popolare in un quartiere alla moda, si alzano i prezzi degli affitti e chi non se li può più permettere è costretto a trasferirsi altrove. In una periferia nuova, ma identica alla vecchia.
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La sua bici inchioda tra via Aosta, corso Brescia e Lungo Dora Firenze, davanti a un edificio abbandonato, come ce ne sono tanti nella periferia nord di Torino. Un tempo era un liceo. Poi è crollato il tetto e per fortuna era estate, se no ci poteva pure scappare il morto. Il Comune ha cercato di vendere l’area per anni senza riuscirci, fino a quando nel 2019 si è fatta avanti The student hotel: una società olandese che ha sganciato oltre sette milioni di euro per l’acquisto e ne investirà altri 63 per farci uno studentato definito dai giornali "eco-chic". Il campus che dovrebbe aprire nel 2023, covid permettendo, prevede anche un co-working, una palestra e un’area ricreativa. L’amministrazione – fanno sapere – si sta impegnando affinché questi spazi siano aperti a tutti. Ma secondo Casalegno non è la soluzione. "Il quartiere può migliorare anche senza cambiare identità. I giovani che crescono qui non devono essere costretti a spostarsi perché qualcuno ha deciso di farne un posto chic. Allo stesso tempo voglio che siano orgogliosi del luogo in cui vivono". Come in fondo lo era già Gipo Farassino. E lo cantava più di cinquant’anni fa.
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