Aggiornato il giorno 6 ottobre 2020
“C’è chi guadagna dieci milioni a stagione, quindi ‘non glieli puoi far saltare perché non ha il B1’, e ci sono tanti giovani che hanno passato la maggior parte della loro vita qui ma per lo Stato sono fantasmi”. Così Danielle Frederique Madam commenta su Facebook il caso Suarez: il calciatore uruguayano che, secondo le indagini, avrebbe sostenuto un esame di italiano farsa all'Università per stranieri di Perugia in modo da ottenere il passaporto comunitario e dunque il via libera a un possibile ingaggio da parte della Juventus.
Riforma della cittadinanza, tre leggi al palo in Parlamento
Madam ha ventidue anni, è nata in Camerun, vive in Italia da quando ha 7 anni, è stata cinque volte campionessa italiana di getto del peso. Ma non ha la cittadinanza italiana. Non è un caso isolato: secondo l’Istat sono oltre un milione le persone nate nel nostro Paese da genitori stranieri, o arrivate in Italia da piccole, che lo Stato continua a non considerare cittadine. L’acquisizione della cittadinanza in Italia è normata dalla legge 91 del 1992 che prevede tre possibilità: naturalizzazione, dopo dieci anni di residenza continuativa e in presenza di alcuni requisiti tra cui quello del reddito; matrimonio; nascita, laddove si intende non il luogo in cui si nasce, ma la nazionalità dei genitori, sulla base del concetto dello ius sanguinis. Chi nasce in Italia non è dunque automaticamente italiano. E poco importa se l’unico Paese che conosce è l’Italia.
"Puntualmente veniamo relegati ai margini della società dalle istituzioni che, tradendoci e abbandonandoci, scelgono ancora una volta di essere dalla parte sbagliata della storia" Italiani senza cittadinanza
“Si discute da anni di una riforma della legge 91/1992, quella legge anacronistica, ma puntualmente veniamo relegati ai margini della società dalle istituzioni che, tradendoci e abbandonandoci, scelgono ancora una volta di essere dalla parte sbagliata della storia”: è quanto scritto da Italiani Senza Cittadinanza in una lettera inviata alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in occasione del recente referendum sul taglio dei parlamentari: l’ennesima occasione in cui una grande fetta della popolazione nazionale non ha potuto esprimere la propria opinione. Sorto nel 2016 per sollecitare una modifica della normativa, il gruppo Italiani senza Cittadinanza non è solo: già nel 2012 la campagna L’Italia Sono Anch’io ha depositato alla Camera oltre 200mila firme, per una riforma della cittadinanza. Per tre anni nessuna risposta. Nel 2015 la proposta venne approvata, ma con un testo molto diverso rispetto a quello della campagna, risultato di una mediazione politica al ribasso. Un parziale e limitato primo step per il cambiamento che però, alla fine, non c’è stato: la modifica si è bloccata al Senato. Anno dopo anno, il tema è scivolato sempre più in fondo al dibattito pubblico, schiacciato da continue ‘emergenze’ e da una propaganda politica sempre più aggressiva e divisiva. Che si riflette sulla società.
"Sui migranti un'illegalità che va bene al governo"
“Il rapporto tra te e lo Stato in cui nasci si basa da subito su una farsa, un ricatto. Come se lo stato ti dicesse: fingiamo che sei arrivato in Italia quando sei nato. Questo afferma il permesso di soggiorno che per diciotto anni devi rinnovare”. A parlare è Ruth G., nata a Roma nel 1984 da genitori eritrei. A diciotto anni ha ottenuto la cittadinanza italiana. “Ricordo le file in questura per il rinnovo del permesso, un documento che diceva che ero immigrata. Ma sono i miei genitori che hanno vissuto l’esperienza migratoria, non io”. Una violenza: così Ruth definisce il rapporto che si instaura con uno Stato che di fatto non ti riconosce per quello che sei. “Man mano che cresci, molti dettagli ti dicono che non sei come gli altri. Potresti ad esempio non poter andare in gita con i tuoi compagni di scuola perché il permesso di soggiorno è scaduto e ci vuole tempo per rinnovarlo”.
“Ricordo le file in questura per il rinnovo del permesso, un documento che diceva che ero immigrata. Ma sono i miei genitori che hanno vissuto l’esperienza migratoria, non io"Ruth G.
È quanto successo a Sonia Limas Morais, nata nel 1990 a Roma da genitori capoverdiani. “Il rinnovo non era arrivato e io non potei andare in gita. Ricordo anche gli appuntamenti in questura. Più crescevo più ero insofferente, chiedevo a mia madre: perché mi hai fatto nascere qui, se poi mi trattano da straniera?”. Tanto la madre di Ruth come quella di Sonia quando le figlie compiono diciassette anni iniziano a raccogliere i documenti personali per la richiesta di cittadinanza. “Sono andata alla scuola materna, alle elementari, con le bidelle che si stupivano di tutto quell’iter”, racconta Sonia, ricordando l’ansia di quel periodo: “Hai un unico anno per fare la richiesta e ti chiedi se ce la farai. Mia mamma era terrorizzata dall’idea che mi rimandassero a Capoverde”. Poi arriva il momento della firma del documento: “Quando ho preso la cittadinanza la funzionaria mi ha detto: ‘complimenti signorina, ora lei è cittadina italiana’. E prima cos’ero? Non ero come i miei compagni, ma non ero nemmeno come i miei genitori. Ho vissuto per diciotto anni in una terra di mezzo”. Una sensazione che Sonia definisce “conflitto identitario” e sperimentata da moltissimi giovani, nati in Italia ma anche arrivati da piccoli.
“L’acquisizione della cittadinanza non si riflette solo nell’avere il documento. Si tratta di poter dare voce al proprio pensiero, a sé. Cosa che in Italia non avviene, a partire dalla scuola”, sottolinea Ruth G., che ricorda: “Alle elementari la maestra mi interpellava per chiedermi di parlare dell’Africa ai miei compagni, io che non la conoscevo per niente. L’impianto formativo in Italia è totalmente eurocentrico, tu sei solo un soggetto razzializzato. Questa società da una parte non fa i conti con il proprio passato, in primis coloniale, e dall’altra non sa ricreare la piazza plurale di cui in realtà è composto”. Da qui, il rischio di una forte spersonalizzazione degli individui non riconosciuti, o riconosciuti ma considerati sempre ‘diversi’.
“C’è una differenza tra sentirsi italiana, esserlo nel documento, e come la gente ti concepisce. In Italia se sei nera sei straniera. A me l’unica cosa che è cambiata con la cittadinanza è il diritto di voto, lo sentivo importante perché ai miei faceva soffrire non poter votare. Per il resto vengo sempre vista come una migrante, e come tale concepita a compartimenti stagni: in Italia se sei un migrante è strano che tu abbia degli interessi culturali, degli amici bianchi, che ti piaccia andare al cinema. Molte volte ho dovuto rispondere alle domande stupite di chi mi chiedeva ‘Ah, ma sei laureata?’. Questa cittadinanza mi pesa, perché la società in cui sono nata mi umilia continuamente”.
“Fino a pochi anni fa nascondevo la mia parte serba, non volevo rischiare di essere additata come la straniera. Sui compiti scrivevo Giovanna, come mi chiamavano le insegnanti. E mi impegnavo di più dei miei compagni, perché se cresci in Italia ma i tuoi genitori sono stranieri non basta essere brava, devi essere eccellente: perché sei una straniera, quindi sempre sotto ricatto”, ricorda Jovana Kuzman.
Il primo decreto sicurezza di Matteo Salvini ha allungato i tempi di risposta per le domande di cittadinanza da due a quattro anni. Ma spesso l’attesa è persino maggiore
Jovana è nata in Serbia nel 1997 ed è arrivata in Italia nel 2000. Ha fatto domanda di cittadinanza a febbraio 2018, e oggi la sua pratica, stando al sito del Ministero dell’Interno, è ancora ai primi step, che corrispondono alla verifica dei requisiti. “Non esiste un’indicazione che dica a chi aspetta quanto tempo è necessario per ogni fase: ci si deve limitare ad attendere", dice, sottolineando come negli altri paesi europei la procedura sia molto più snella e duri al massimo un anno. Invece qui le cose si sono persino complicate: il primo decreto sicurezza di Matteo Salvini ha allungato i tempi di risposta per le domande di cittadinanza per residenza o matrimonio da due a quattro anni. Termine che il nuovo decreto a firma di Luciana Lamorgese ha portato a tre.
Insieme a Italiani Senza Cittadinanza, Jovana sollecita una modifica della normativa, che riconosca anche chi non è nato qui ma ci è arrivato da piccolo, come lei. “Sono arrivata in Italia tre anni, qua ho svolto tutto il mio percorso formativo. Eppure per la mia richiesta di cittadinanza e quella di mia madre chiedono gli stessi documenti. Il fatto che io abbia vissuto tutta la mia vita qua per lo stato non fa alcuna differenza”. Al contrario, l’assenza della cittadinanza italiana influisce molto sulla vita di Jovana, laureanda in Scienze politiche all’università Roma Tre: "Sono interessata a diversi tirocini, cui però non posso accedere”.
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