La corruzione che c'è e quella che sarà

Corrompere significa spezzare quel legame fiduciario che anima tutte le relazioni sociali. Comprendere queste pratiche è il primo passo per capire com'è cambiato il Paese e sapere come agire nella ricostruzione post coronavirus

Alberto Vannucci

Alberto VannucciProfessore di Scienza politica, Università di Pisa

7 giugno 2020

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“L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Così Italo Calvino in Le città invisibili, doveroso omaggio alla rubrica che ospita questo contributo, coglie un aspetto profondo del tema trattato. La pratica della corruzione costituisce infatti una dimensione di quel desolante “inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Si manifesta quando qualcosa di insinuante, quasi sempre impercettibile, va a corrodere e infine “spezzare” il legame fiduciario che anima tutte le relazioni sociali, permettendoci di attribuire loro significato e valore. L’etimologia ci permette di cogliere la radice del concetto: il termine latino corruptio è composto da con e rumpere rompere, ossia spezzare qualcosa che prima era unito: fiducia da un lato, responsabilità dall’altro. Comprendere quali pratiche sociali siano forme di corruzione è un primo passo necessario. 

Di cosa parliamo quando parliamo di corruzione

Sgombriamo il campo da un primo fraintendimento. Il discorso pubblico sulla corruzione si associa inesorabilmente alle vicende di qualche esponente politico o funzionario coinvolti o condannati a seguito di inchieste giudiziarie. Nell’immaginario collettivo si realizza così una sovrapposizione tra la realtà della corruzione e la violazione del codice penale, cui fa seguito l’azione repressiva dello Stato. La dimostrazione giudiziaria di una responsabilità penale si trasforma nella cartina di tornasole dell’esistenza di corruzione. Questo consente a imputati più o meno eccellenti prosciolti o assolti (o persino prescritti) di essere considerati pubblicamente immuni da qualsiasi forma di responsabilità.

Per l'Anac, la corruzione è quando un soggetto abusa del suo potere per vantaggi privati e di conseguenza un'amministrazione non funziona bene: una vera rivoluzione copernicana

Cogliere e ovviare a questo cortocircuito politico-giudiziario richiede un ampliamento di prospettiva.  Secondo l’Autorità nazionale anticorruzione si ha corruzione in tutte quelle “situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati. Le situazioni rilevanti sono più ampie della fattispecie penalistica (...) e sono tali da comprendere (...) anche le situazioni in cui – a prescindere dalla rilevanza penale – venga in evidenza un malfunzionamento dell’amministrazione”. Passata quasi inosservata, in realtà questa ridefinizione “amministrativa” di una più estesa nozione di corruzione ha rappresentato a livello concettuale una vera rivoluzione copernicana, che ancora tarda però a tradursi in una corrispondente evoluzione culturale di politiche e prassi amministrative. 

Due passaggi meritano un approfondimento. Il primo è la questione dell’identità pubblica oppure privata del corrotto. Si tende ad associare soprattutto a politici e funzionari pubblici la pratica della corruzione, forse perché il loro coinvolgimento, avendo a che fare con la res publica - è più facilmente riconoscibile e fonte di indignazione. Ma la corruzione realizza una qualche distorsione (o “abuso”) anche nelle relazioni tra soggetti privati. E le ricadute tossiche dei molti “tradimenti di fiducia” osservabili nelle relazioni sociali o di mercato sono altrettanto deprecabili e nocive di quelle osservabili nell’apparato pubblico.

Il secondo punto è altrettanto significativo. La nozione di “abuso” di un potere delegato si presta a molteplici e discordanti interpretazioni. Di conseguenza, diventa variabile tanto il perimetro delle condotte riconducibili a manifestazioni di corruzione, quanto l’identità degli attori che – accanto alla magistratura – possono assumersi la responsabilità di valutare, giudicare ed eventualmente punire quelle condotte devianti. Dall’algido rigore delle leggi, fino alla materia incandescente della morale, passando per tutte le sfumature intermedie: associata ai valori culturali, agli interessi collettivi, ai beni comuni, la stessa nozione di corruzione si frammenta e diventa una costruzione sociale, materia di divergenze, contrapposizioni e dibattito, si fa arma dialettica, utilizzabile nel confronto e nello scontro politico.

La sfida dell'Anac: mappare la corruzione in Italia

Le metamorfosi della corruzione italiana

“La gestione degli appalti pubblici della sanità siciliana appare affetta da una corruzione sistemica con il coinvolgimento, con compiti e ruoli diversi, di funzionari e dirigenti pubblici infedeli, faccendieri e imprenditori senza scrupoli disposti a tutto pur di aggiudicarsi appalti milionari”: si tratta della descrizione offerta dai giudici del reticolo criminale che ha portato nel maggio 2020 all’arresto di due alti dirigenti siciliani, uno dei quali commissario per l’emergenza Covid-19. “Mi compri coi soldi... facendomi vedere che rispetti gli impegni. Salvo farmi dire però che è scontato… che è il cinque netto dei contratti dei grandi impianti”, così nel 2018 – sei anni dopo la legge Severino e l’istituzione dell’Autorità anticorruzione – continuano a essere negoziate le tangenti. Un equilibrio tenace, cristallizzato in reti di corruzione sistemica specie nel regno della cosiddetta grand corruption, quella dei grandi affari e delle grandi opere, delle speculazioni urbanistiche e delle controversie fiscali milionarie.

Contrariamente a una diffusa rappresentazione autodenigratoria, in Italia sembra invece esservi – oggi come ieri – un livello relativamente modesto di corruzione spicciola: il dipendente pubblico di rado chiede soldi o altri tipi di favori per fare (o non fare, se svolge funzioni di controllo) il suo lavoro confrontandosi coi comuni cittadini – per quanto vi siano eccezioni. L’ultimo sondaggio di Eurobarometro, nel 2017, certifica che solo il 4 per cento dei cittadini italiani ha visto o vissuto un episodio di corruzione nell’ultimo anno, un dato molto al di sotto della media europea, e solo il 7 per cento dei cittadini conosce di persona qualcuno che prende tangenti – la percentuale più bassa tra i paesi dell’Unione Europea. Più che nella quotidianità, le radici profonde della corruzione endemica sembrano affondare nel terreno dove si forma l’élite economica, politica, professionale del paese, dove si plasmano i valori della classe dirigente.

L’evidenza ricavabile dai principali casi di corruzione, da “Mani pulite” ai giorni nostri, segnala la presenza di meccanismi di coordinamento, talora assai sofisticati. Vi sono regole non scritte, ma di conoscenza e accettazione condivisa, “norme di condotta”, che nella “zona grigia” di attività criminali legano tra loro politici, funzionari, imprenditori, professionisti, faccendieri, attori criminali. Un politico arrestato parlò di un “galateo della corruzione”.

Rispetto alla situazione fotografata da “Mani pulite”, col tempo si sono però consolidati nuovi equilibri di forze e di autorità. Negli anni Novanta si scoprì che l’ultima istanza di “governo” degli scambi occulti era data da pochi e consolidati centri di potere, le segreterie dei principali partiti, capaci di assicurare un accesso selettivo alle risorse pubbliche a una cerchia ristretta di imprenditori, imprese e cooperative politicamente affini. Quella struttura “partitocentrica” di regolazione del mercato della corruzione non ha retto il colpo delle inchieste giudiziarie: in assenza di un baricentro riconosciuto di autorità partitica, la realtà della grand corruption, ancora endemica, si è fatta frastagliata e policentrica. Si sono moltiplicati gli attori che intercettano la domanda di protezione degli scambi occulti: faccendieri (nello scandalo Expo), dirigenti di consorzi di imprese private (nelle tangenti del Mose), alti dirigenti ministeriali (nella cosiddetta cricca della Protezione civile), e naturalmente le organizzazioni criminali come “Mafia capitale”, che della gestione di una capillare corruzione nell’amministrazione capitolina aveva fatto il proprio core business.

Dopo "Mani pulite" si moltiplicano gli attori che intercettano la domanda di protezione degli scambi occulti: faccendieri, dirigenti di consorzi di imprese private, alti funzionari ministeriali e, ovviamente, le organizzazioni criminali come dimostra Mafia capitale

Almeno dai tempi del “tavolino”, il meccanismo con cui dagli anni Ottanta del secolo passato gli emissari della mafia corleonese organizzarono scientificamente la spartizione di tangenti e appalti in Sicilia, sappiamo che le mafie sono un garante estremamente robusto degli scambi illeciti, grazie all’applicazione della loro forza intimidatrice.

La preoccupazione per il ruolo crescente che le mafie potranno ritagliarsi in attività imprenditoriali e finanziarie nella fase post-emergenza pandemia dovrebbe muovere da questa elementare premessa: la forza di infiltrazione criminale si fonda essenzialmente e quasi esclusivamente su strategie di matrice collusiva e corruttiva, fondate su denaro o voti che siano. Le mafie trovano nelle amministrazioni pubbliche e nei sistemi economico-finanziari connotati da forme pervasive di corruzione una calamita per la loro penetrazione in nuovi territori e mercati, tanto in veste di agenti corruttori che quali garanti degli scambi occulti. Basti ricordare la vicenda emersa nell’inchiesta giudiziaria "Aemilia" del 2015: un imprenditore emiliano, sentendosi truffato da un intermediario nel versamento anticipato di una tangente di 1,3 milioni di euro finalizzata a vincere una gara d’appalto in Lombardia, si è affidato a un gruppo ‘ndranghetista per sciogliere a proprio favore – con i metodi spicci tipici del gruppo criminale – la controversia che ne era scaturita.

Coronavirus, anche le tangenti hanno effetti letali sui malati

Ricostruzione post Covid e corruzione: che fare e cosa non fare?

Qualsiasi credibile lotta alla corruzione richiede un impegno “di lunga durata”, uno sguardo lungimirante. Un libro di Eric Uslaner del 2017 dimostra come “le radici storiche della corruzione” risiedano soprattutto nei livelli di istruzione riscontrabili oltre un secolo e mezzo fa. I paesi che in quegli anni hanno investito in un’educazione di massa, generando una cittadinanza più istruita e attiva, hanno avviato un circolo virtuoso di partecipazione civica che col tempo ha favorito la selezione di governanti responsabili, assicurando alti standard di trasparenza e integrità nella gestione della cosa pubblica. Il buongoverno è il miglior presidio contro la corruzione, intesa come abuso di potere e tradimento di fiducia, non solo e non sempre come reato.

In Italia il massimo comun denominatore di tutti gli interventi di contrasto alla corruzione, dalla legge 190 del 2012 alla legge 3 del 2019, cosiddetta “spazzacorrotti”, è stato invece la miope prospettiva dell’inasprimento delle pene. I promotori si sono affidati per un verso all’effetto-annuncio dei provvedimenti, generando aspettative che, se deluse, finiranno per alimentare ulteriore distacco e disincanto. L’arma del contrasto penale sconta un limite insuperabile: trascura gli innumerevoli altri abusi “legittimi” di potere pubblico – fino alle forme di “corruzione legalizzata”, in cui le leggi non sono violate, ma piegate a vantaggio di oligarchie corrotte – che generano cattiva amministrazione e sfiducia.

Altri campanelli d’allarme squillano assordanti. Nel dibattito pubblico sulle esigenze di ricostruzione economica e sociale post-coronavirus si è consolidato una sorta di mantra emergenzialista che ha nel “modello ponte di Genova” il proprio ossessivo termine di riferimento. L’ingente ammontare di investimenti pubblici che dovrebbe favorire la “ripartenza” andrebbe governata secondo un modello di gestione straordinaria, in deroga a tutte le norme e le disposizioni vigenti. Negli appalti, in particolare, si invoca il ritorno a procedure straordinarie di gestione delle gare, identiche a quelle utilizzate dalla cosiddetta “cricca” della Protezione civile.

La ricostruzione del ponte di Genova
La ricostruzione del ponte di Genova

La storia italiana degli ultimi decenni ci ha insegnato che una simile tipologia di scelta pubblica, figlia primogenita di qualsiasi emergenza vera o fittizia, è inerentemente criminogena, strada maestra della corruzione e dell’infiltrazione mafiosa. Il suo esito prevedibile sono lavori pubblici, forniture e servizi di pessima qualità assegnati a prezzi esorbitanti a imprenditori ben introdotti nei circoli giusti, nelle anticamere di politici e alti funzionari, nei potentati locali o nei comitati d’affari, nelle logge massoniche o altre circoli riparati. Paradossalmente, l’ideologia sottesa a questa “cultura dell’emergenza” sbandiera la contrapposizione tra l’ottusità della burocrazia e la snellezza del “fare”. Sappiamo però che nella desertificazione delle regole ordinarie i primi a scendere in campo sono da sempre i più seri e competenti professionisti dell’illegalità, meglio per loro se spalleggiati da protettori mafiosi.

Come ogni situazione critica, anche l’emergenza post-pandemia apre invece una finestra di opportunità. Una diversa gestione amministrativa post-emergenza è possibile, purché si ispiri ai pilastri auspicabili di una sostanziale prevenzione della corruzione:

  • trasparenza integrale di ogni spesa e acquisto pubblico;
  • utilizzo di quelle procedure e norme già esistenti – tra cui quelle del vituperato codice degli appalti – che già autorizzano un drastico snellimento in caso di urgenza, senza abdicare al controllo;
  • valorizzazione ed estensione di quelle “buone pratiche”, tra cui la vigilanza collaborativa, che nel 2014 permise all’Anac di raddrizzare in corso d’opera gli appalti inquinati dell’Expo;
  • rafforzamento dei controlli successivi sulla qualità finale di lavori, servizi e prestazioni;
  • iniezione massiccia di competenze professionali tecniche nella pubblica amministrazione (ingegneri, informatici, statistici, economisti, aziendalisti, etc), che facciano da contrappeso alla cultura giuridico-formalistica oggi dominante;
  • rafforzamento ed estensione degli strumenti di prevenzione diffusa e controllo sociale degli abusi di potere, come il monitoraggio e l’accesso civico.

Del resto, per tornare a Le città invisibili di Calvino, di fronte all’inferno (della corruzione): "Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Per saperne di più:

  • Cantone, R.. Il sistema di prevenzione della corruzione, Napoli, Giappichelli, 2019;

  • Cantone R. e Carloni E., Corruzione e anticorruzione, Milano, Feltrinelli, 2018;

  • Ferrante L. e Vannucci A., Anticorruzione pop, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2017

  • Picci, L. e Vannucci A., Lo Zen e l’arte della lotta alla corruzione, Milano, Altreconomia, 2018;

  • Sciarrone, R. (a cura di), Politica e corruzione, Roma, Donzelli, 2017;

  • Vannucci, A., Atlante della corruzione, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2012.
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