5 aprile 2020
A Palermo avremmo dovuto parlare di come l'informazione può contrastare le mafie. Il 21 marzo scorso in Sicilia era programmata la venticinquesima edizione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Come sappiamo, per l'emergenza sanitaria tutti gli eventi pubblici sono stati cancellati. Proviamo allora a trasformare quella mancata discussione, a cui avrebbero dovuto partecipare relatori competenti, in una necessaria riflessione sul ruolo della buona informazione per l'esercizio dei diritti e contro gli abusi di potere, rappresentati nello specifico da mafie e corruzione.
Il punto di partenza, dovendo coniugare il binomio “memoria e impegno” sul versante dell’informazione, non può che essere la lezione professionale e umana che ci hanno regalato i giornalisti uccisi per il loro lavoro quotidiano. Sono nove i nomi che dobbiamo ricordare doverosamente: Cosimo Cristina (5 maggio 1960); Mauro De Mauro (16 settembre 1970); Giovanni Spampinato (27 ottobre 1972); Peppino Impastato (9 maggio 1978); Mario Francese (26 gennaio 1979); Giuseppe Fava (5 gennaio 1984); Giancarlo Siani (23 settembre 1985); Mauro Rostagno (26 settembre 1988); Beppe Alfano (8 gennaio 1993). Dietro ognuno di questi nomi c'è una storia che, pur nelle ovvie diversità, se ridotta ai minimi termini essenziali, ci restituisce lo stesso impegno contro le organizzazioni criminali in Sicilia, ad eccezione del lavoro di Siani nella provincia di Napoli, dove documentava gli appetiti dei clan camorristi nel periodo post-sisma in Campania.
I giornalisti eliminati in Sicilia si sono scontrati con l’assoluta impossibilità di raccontare la propria terra e il proprio tempo, senza dover chiamare in causa poteri criminali e occulti, intrecciati in maniera stretta con politica ed economia. Tutto questo è avvenuto in un arco temporale di quasi quattro decenni – dal 1960 al 1993 – in cui i mafiosi hanno smesso di svolgere il ruolo di campieri, cioè le guardie armate del latifondo siciliano al servizio dei proprietari terrieri e della nobiltà, per interessarsi prima di appalti pubblici, poi di contrabbando di tabacchi e sostanze stupefacenti. È il periodo in cui Cosa nostra pur mutando pelle, ha mantenuto intatto il suo nucleo costitutivo fatto di potere e denaro, volti al controllo del territorio. È anche il periodo – anomalo nella storia della mafia siciliana, ma non per questo meno significativo – in cui matura e si sviluppa la cosiddetta “mattanza” voluta dai “corleonesi”, determinati a spazzare via senza troppi ripensamenti gli ostacoli interni ed esterni che si frapponevano loro nella conquista del dominio all’interno dell’organizzazione.
Tutti questi giornalisti caduti nella lotta alla mafia erano i più esposti in quest’opera di narrazione e denuncia in presa diretta delle vicende criminali. Possiamo affermare che sono stati uccisi perché operavano in condizioni di isolamento all’interno della stessa categoria giornalistica – alcuni di loro come Impastato e Rostagno neppure avevano il tesserino dell’Ordine – e, al momento della loro eliminazione, il loro lavoro si è interrotto perché i clan mafiosi ben sapevano che togliendo di mezzo loro, non avrebbero avuto più problemi con altri loro colleghi. Quindi non sono morti perché hanno fatto “il passo più lungo” della gamba, esponendosi oltre il lecito consentito, ma perché sono rimasti da soli, dopo che altri, che avrebbero dovuto essere al loro fianco, invece avevano fatto un passo indietro.
Quello che hanno fatto, compreso andare incontro alla fine, lo hanno fatto per dovere professionale oppure per coerenza personale? Ci piace credere che entrambe le ragioni li abbiano motivato a dare l’esempio migliore di come un buon giornalismo possa essere al servizio della collettività, soprattutto quando non rinuncia a raccontare le pieghe più scomode della società, non facendo sconti a nessuno, pur sapendo che così facendo ci si espone a ritorsioni, anche violente ed estreme.
A questi nomi vanno di certo aggiunti quelli di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Mogadiscio, Somalia, 20 marzo 1994) e Graziella De Palo e Italo Toni (scomparsi a Beirut, Libano, il 2 settembre 1980). Sono stati uccisi fuori dai confini italiani, ma entrambe le loro vicende chiamano in causa il medesimo intreccio di poteri occulti e di traffici illeciti, un intreccio capace di dispiegare la sua forza a distanza di decenni, se solo pensiamo che ancora oggi non abbiamo raggiunto la verità su questi omicidi.
Infine, dobbiamo senz’altro ricordare anche Anna Politkovskaja (Mosca, 7 ottobre 2006), Daphne Caruana Galizia (Bidnija, Malta, 16 ottobre 2017) e Ján Kuciak (Velka Maca, Slovacchia, 22 febbraio 2018). Anche i loro nomi figurano nel lungo elenco che viene letto da Libera ogni anno nelle diverse piazze italiane in occasione del 21 marzo.
Il nome di Anna è stato il primo ad essere inserito nella lista e i suoi familiari hanno presenziato anche ad alcune iniziative di Libera. La giornalista russa fu uccisa per aver documentato, senza censure e reticenze, gli orrori della guerra in Cecenia che chiamavano in causa in modo diretto Vladimir Putin, novello zar della moderna Russia. Un racconto che era assolutamente insopportabile per il potere consolidato del regime e per questo silenziato alla prima occasione utile.
A Palermo avremmo avuto ospiti alcuni dei familiari di Daphne Caruana Galizia e purtroppo questa testimonianza diretta ci è mancata, anche se avremo modo di recuperarla in altre circostanze. Ci avrebbero raccontato degli sforzi quotidiani della blogger maltese per denunciare la corruzione in un paese ritenuto al di sopra di ogni sospetto, con l’esposizione di scandali piccoli e grandi sul suo blog.
Malta è diventata infatti un'isola strategica per i traffici transnazionali delle mafie: la cittadinanza maltese – che apre automaticamente al possessore le porte dell’Europa – è oggi venduta per cifre che vanno dai seicentomila euro al milione di euro. Chi pensate possa spendere queste somme per poter essere classificato come un cittadino dell’Unione europea? E perché dovrebbe farlo se non per avere facile accesso alla libera circolazione, oltre della sua persona, anche dei capitali e degli affari che movimenta?
La storia di Ján Kuciak, invece, è praticamente cronaca di oggi: lui e la fidanzata Martina Kušnírová vengono uccisi da killer prezzolati, il cui processo è in corso. Il corto circuito che ha innescato la loro morte va individuato nelle inchieste giornalistiche di Kuciak che aveva messo sotto i riflettori non solo le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Slovacchia, ma anche gli interessi criminali legati alle frodi ai danni dell’Unione Europea per la concessione dei fondi previsti per il sostegno dell’agricoltura.
La professione è spesso esercitata da giovani volenterosi retribuiti a pezzo, per pochi euro, senza tutele contrattuali che li proteggano dalle querele strumentali
Da tutti questi nomi, dalle loro storie, diverse ma unite da un sottile filo rosso, quale lezione possiamo ricavare oggi, in riferimento al rapporto tra informazione e lotta alle mafie e alla corruzione? Dovendo dare una risposta unica e immediata, ci verrebbe da dire, seppure a malincuore, “nessuna”.
“Nessuna”, se è vero come è vero che ancora oggi fare bene il proprio lavoro di giornalista che si occupa di poteri forti e organizzazioni criminali ti mette in pericolo, come è testimoniato da Roberto Saviano, Lirio Abbate, Federica Angeli, Giovanni Tizian, Paolo Borrometi, Sandro Ruotolo, solo per citare i giornalisti più noti al pubblico, finiti sotto scorta per le loro inchieste sulle mafie, ai quali di recente si sono aggiunti Paolo Berizzi e lo stesso direttore de La Repubblica, Carlo Verdelli, questi ultimi in seguito alle minacce di gruppi neofascisti e neonazisti. Vicende, quelle di Berizzi e Verdelli, che meriterebbero ben altro approfondimento e che, in questa sede, ci limitiamo a citare non solo per obbligo di completezza, ma anche per ragioni di sincera solidarietà nei loro confronti.
E ancora “nessuna”, se pensiamo che non solo nei territori di tradizionale presenza mafiosa, ma anche nel resto del Paese, la professione giornalistica è spesso esercitata da giovani volenterosi che sono retribuiti solo a pezzo e per una miseria di euro, in assenza di tutele contrattuali che li mettano al riparo delle minacce che oggi, sempre più, assumono le sembianze di querelestrumentalmente volte ad interrompere il controllo democratico di una libera informazione.
“Nessuna”, infine, potrebbe essere la risposta anche considerando quale è il peso del potere di corruzione e mafie ancora oggi in Italia, Europa e nel resto del mondo. I clan mafiosi, grazie alla loro capacità di interagire con altri network criminali e con poteri occulti, sono a pieno titolo attori della globalizzazione in atto e anche le vicende legate al coronavirus lo dimostrano.
Il sacrificio dei giornalisti uccisi ha aumentato la conoscenza dei pericoli di mafie e corruzione per democrazia e diritti non solo nel Sud Italia, ma anche al Nord e nel resto d'Europa. È anche aumentata la solidarietà verso i cronisti minacciati
Guardando però il “bicchiere mezzo pieno”, dobbiamo dare una risposta diversa al quesito relativo all’esito del sacrificio estremo dei giornalisti uccisi che abbiamo ricordato. Occorre riconoscere che, anche grazie alle loro storie e soprattutto a quanto hanno saputo portare alla luce, è aumentata la conoscenza dei pericoli per la democrazia e i diritti che mafie e corruzione rappresentano. Questo è avvenuto non solo nel Sud del Paese, ma anche al Nord e nel resto d’Europa, dove le cosche sono arrivate dopo. Oggi parlare di mafie e corruzione non è un fatto eccezionale, lasciato al racconto di pochi coraggiosi, ma piuttosto è patrimonio di tanti, una matura consapevolezza della necessità dell’impegno di tutti in questa battaglia.
È poi vero che all’interno della categoria giornalistica, dove non sempre prevale spirito d’unità nel nome di uno scoop da raggiungere prima degli altri, è viceversa cresciuta l’attenzione ai non pochi episodi di minacce e violenza ai danni di operatori dell’informazione, tanto da far scattare in occasioni simili una solidarietà concreta e una vicinanza reale a chi è oggetto di attenzioni criminali. L’esperienza di Ossigeno per l’Informazione che registra ognuno di questi casi e il tavolo di monitoraggio degli atti intimidatori presso il Viminale, costruito in collaborazione con Federazione nazionale della Stampa Italiana e Ordine dei Giornalisti, sono due strumenti di lavoro importante che prima non c’erano e ora servono a impedire il ripetersi di casi di isolamento, tali da prefigurare le condizioni per ulteriori offese ai danni di cronisti, in primis quelli che si occupano di criminalità organizzata.
Certo, ad essere sinceri, resta l’amaro sospetto che a volte proprio l’esposizione di alcuni colleghi sotto tutela serva alla categoria nel suo complesso come comodo alibi per nascondere le proprie manchevolezze e deficienze che pure non sono poche. Se la professione oggi non gode dei favori della pubblica opinione, che preferisce fare a meno dell’intermediazione dei giornalisti puntando ad una informazione “fai da te” grazie all’attività compulsiva e spesso fuorviante dei social, tutti noi che facciamo questo mestiere dovremmo porci qualche domanda in più. Del ruolo dell’informazione e di come vengono raccontate mafie e corruzione è più che mai importante riflettere proprio in ragione di quanto tutti stiamo vivendo in queste settimane.
Si moltiplicano in questi ultimi giorni i campanelli d’allarme che rilanciano l’attenzione sulla capacità delle cosche di sfruttare le fasi di debolezza delle democrazie e dei mercati, incrementando le occasioni di movimento delle merci illegali e, soprattutto, progettando utili opportunità di investimento delle loro enormi ricchezze, non appena saranno tolte le limitazioni a persone e merci (lavialibera ha dedicato un'analisi su questo tema, ndr). Serviranno una grande attenzione della pubblica opinione e una capillare vigilanza delle autorità competenti quando, alla ripresa delle attività produttive dopo l'isolamento causato dal coronavirus, si paleseranno difficoltà economiche e strappi nel sistema capaci di prefigurare un intervento delle cosche e dei loro capitali.
Servirà anche un’informazione che faccia tesoro delle storie dei giornalisti uccisi, che sappia essere all’altezza delle sfide poste, mettendosi in continua discussione. In questa direzione vuole collocarsi anche Lavialibera: qualcosa di più che una nuova esperienza editoriale promossa da Libera e Gruppo Abele, ma un segnale di fiducia nel futuro di un’informazione al servizio dei diritti e capace di esserlo in ragione del cuore antico che batte nel suo petto. Anche di questo avremmo dovuto parlare a Palermo, ma nel frattempo la corsa prosegue e occorre affrettare il passo per non perdere tempo prezioso.
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