Lontani da Gaza, sperando di tornare: la nuova vita di una famiglia palestinese evacuata in Italia

Mohammed, Ikram e i loro quattro bambini dalla Striscia sono arrivati in Italia per curare una delle figlie gravemente malata. La loro nuova casa è in un condominio di Rossiglione, in Liguria, ma sognano di ripartire

Marco Panzarella

Marco PanzarellaRedattore lavialibera

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

1 novembre 2025

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Heba deve ancora compiere cinque anni e ogni giorno assume cinquanta medicine. I nomi dei farmaci, alcuni difficilissimi, sono segnati su un foglio bianco attaccato al frigo. La bimba è alta la metà della sorella gemella, Risal, a causa di una rara malattia genetica che blocca la crescita e danneggia occhi, reni e altri organi.

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L’orologio alla parete scandisce il tempo delle somministrazioni: la bimba l’ha capito e ogni volta fugge via alternando risa a pianti. Il gioco si interrompe con una caramella, che mamma Ikram concede in cambio della penitenza. Da qualche mese la nuova casa di Heba e della sua famiglia non è più a Gaza, ma in un condominio di Rossiglione, paesino ligure al confine con il Piemonte.

Fuga dolorosa

In Palestina la famiglia viveva nel campo profughi di Jabalya, raso al suolo dalle bombe dell’esercito israeliano. Ikram e le tre figlie – Heba, Risal e la secondogenita Siwar – hanno attraversato il valico di Rafah e sono arrivate in Italia a marzo, mentre suo marito Mohammed e il figlio primogenito Agel le hanno raggiunte a maggio, passando dalla Cisgiordania.

"Poco prima di partire hanno ucciso mia sorella. La notte sono rimasto a vegliare il corpo perché a Gaza i cani randagi non hanno cibo e mangiano i cadaveri"

"Poco prima di partire hanno ucciso mia sorella. La notte sono rimasto a vegliare il corpo perché a Gaza i cani randagi non hanno cibo e mangiano i cadaveri", racconta Mohammed, mentre in una padella prepara la shakshuka, un piatto tipico con cipolla, uova speziate e pomodoro. "Vorrei spegnere il cellulare, ma è l’unico modo per sapere se i miei familiari stanno bene", aggiunge guarnendo con un filo d’olio un’abbondante ciotola di hummus. "Qui siamo al sicuro, ma mi sento in colpa. Dovrei essere a Gaza, accanto a mia madre che è sofferente e continua a fuggire da una parte all’altra della Striscia. Il 95 per cento degli ospedali è stato distrutto, le persone sono sfinite, non ce la fanno più".

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La tregua siglata il 10 ottobre a Sharm el Sheikh tra Israele e Hamas, dopo gli iniziali entusiasmi, si sta rivelando fragile. "Cosa significa tregua per Israele? Che muoiono cento persone invece che mille? Cosa sono per loro cento persone? I valichi sono ancora chiusi, non passano cibo e medicine, ai giornalisti è vietato l’ingresso. Le famiglie hanno paura, questa tregua è soltanto nelle parole".

"Le famiglie hanno paura, questa tregua è soltanto nelle parole"

La chiacchierata è interrotta dal frastuono di un elicottero dei vigili del fuoco che sorvola l’edificio, forse per un’esercitazione. Gli abiti stesi sul balcone volano via atterrando sul giardino comune al pianterreno, mentre il pavimento della cucina in pochi secondi si riempie di foglie secche. Il rumore è assordante e molesto, soprattutto per Risal, che si porta le mani alle orecchie e comincia a piangere. Allora Mohammed la prende in braccio e dalla finestra indica l’elicottero, le dice che non c’è nulla da temere e la figlia si quieta.

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"A Gaza è così tutti i giorni", sussurra il papà accendendosi l’ennesima sigaretta. "Io e mia moglie non abbiamo paura della morte, disperarsi e versare lacrime non serve a nulla perché non siamo noi a decidere il nostro destino. Non so cosa accadrà alla mia famiglia, come e dove vivremo. Ma sono sicuro che un giorno torneremo a Gaza, il nostro cuore è rimasto lì".

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