Torino, 11 ottobre 2025. Basel Adra ospite del Festival della missione (foto di Paolo Valenti)
Torino, 11 ottobre 2025. Basel Adra ospite del Festival della missione (foto di Paolo Valenti)

Israele-Palestina, Basel Adra: "Si potrà parlare di pace solo quando finirà l'occupazione in Cisgiordania"

Mentre i grandi del mondo riuniti a Sharm el-Sheikh celebrano l'accordo tra Israele e Hamas su Gaza, in Cisgiordania le colonie illegali si moltiplicano e l'esercito continua a demolire villaggi palestinesi. "Serve continuare a mobilitarsi e chiedere sanzioni", dice Basel Adra, giornalista e attivista premio Oscar con The Other Land

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

13 ottobre 2025

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In trent'anni di vita, Basel Adra la pace non l’ha mai vista. Non la vedrà nemmeno quando, concluso il suo viaggio in Italia, rientrerà a Masafer Yatta, in Cisgiordania. Mentre i grandi del mondo celebrano a Sharm el-Sheikh l’accordo tra Israele e Hamas che, secondo Donald Trump, segna “l’alba storica di un nuovo Medio Oriente”, il giornalista e attivista palestinese, premio Oscar con il documentario No Other Land, richiama alla realtà che continuano a vivere i territori occupati, lasciati ai margini dei negoziati: “Sono contento che si metta fine al genocidio a Gaza, ma l’occupazione e l’apartheid in Cisgiordania continuano, anzi si fanno sempre più violenti – dice a lavialibera a margine del Festival della Missione di Torino, di cui è stato ospite –. Serve continuare a mobilitarsi e chiedere sanzioni”.

Altro che Oscar, No Other Land è da Nobel

Basel, mentre tu sei in Italia Hamas sta consegnando gli ostaggi, Israele sta liberando alcuni prigionieri palestinesi e i leader mondiali si stanno riunendo a Sharm el-Sheikh per discutere il piano che, secondo il presidente Trump, porterà “pace duratura in Medio Oriente”. Sarà così?

No. Non si tratta di pace, ma di un cessate il fuoco che riguarda solo Gaza. È certo importante, perché potrebbe mettere fine a due anni di genocidio durante i quali Israele ha ucciso quasi cento palestinesi al giorno con armi americane e con la fame, raso al suolo case, scuole, strade, ospedali. Per cui sono felice che tutto questo si sia fermato, ma non dimentichiamoci che la gente di Gaza ora si trova di fronte a una realtà fatta di distruzione totale, senza acqua, senza elettricità. Per tornare alla normalità serviranno anni, se non decenni.

Per la Cisgiordania, invece, nessun cessate il fuoco. Com’è la situazione?

"La situazione in Cisgiordania è cambiata in peggio. Ogni giorno e ogni ora i coloni costruiscono nuovi insediamenti illegali, mentre l'esercito distrugge i nostri villaggi nel silenzio del mondo"

È cambiata completamente, e in peggio, dall’inizio del genocidio a Gaza. Ogni giorno e ogni ora abbiamo coloni che costruiscono nuovi insediamenti illegali, fattorie, strade, mentre l’esercito distrugge i nostri villaggi, le nostre case, costringendo molti ad andarsene. I raid degli ultimi mesi in tre campi profughi hanno lasciato 45mila palestinesi sfollati. E di questo si parla pochissimo: nessuna parola dagli americani, né dagli europei. Siamo completamente dimenticati, il che significa dare ai coloni e ai soldati il permesso di continuare. 

Quando hai ritirato l’Oscar per No Other Land, hai detto che speravi potesse contribuire a cambiare le cose. È stato così?

Molte più persone oggi conoscono Masafer Yatta e ne parlano, ma la situazione sul campo non è cambiata, anzi. Nei mesi scorsi un villaggio è stato completamente distrutto, ed è di qualche giorno fa la decisione di raderne al suolo altri due. E mentre le comunità palestinesi si riducono giorno dopo giorno, smantellate con la forza, gli insediamenti illegali dei coloni diventano sempre più grandi e numerosi.

Tu sei nato e hai sempre vissuto sotto l’occupazione israeliana. Cosa significa concretamente?

Non potete immaginarlo: ha un impatto enorme su tutti gli aspetti della vita quotidiana. Significa perdere la terra, il lavoro, le pecore, gli ulivi, le case, le scuole, le strade. Significa vivere costantemente con il timore che i soldati ti entrino in casa, arrestino te o i tuoi familiari, distruggano i mobili con la scusa delle perquisizioni, o che i coloni brucino la tua macchina, attacchino fisicamente te o i tuoi familiari, comprese donne e bambini. Significa non potersi muovere liberamente da un villaggio all’altro perché c’è un checkpoint o perché l’esercito ha deciso che quel giorno la strada è chiusa. Non c’è sicurezza, si vive costantemente nel timore e nell’ansia di ciò che è successo o potrebbe succedere. 

E qual è il clima per i giornalisti e gli attivisti?

Ancora peggio. Chi prova a documentare ciò che succede rischia a maggior ragione di essere arrestato o espulso, oppure di vedersi negata la possibilità di raggiungere il luogo dove avvengono le violazioni. Il motivo è chiaro: Israele vuole nascondere la verità. I soldati sono entrati anche in casa mia il mese scorso dopo un attacco dei coloni e lo stesso è successo ai miei genitori e amici. Ho paura, come tutti i palestinesi, ma continuo.

“Il giornalismo che resiste” è il titolo che abbiamo dato al nostro ultimo numero, che parla delle crescenti minacce alla libertà di stampa e delle realtà dove l’informazione indipendente sopravvive e cresce nonostante tutto. Vedi il giornalismo come una forma di resistenza?

In qualche modo sì. Noi giornalisti palestinesi non siamo eccezionali rispetto alla nostra gente, partecipiamo insieme a loro alla lotta quotidiana contro l’occupazione: aiutiamo a ricostruire ciò che è stato distrutto, partecipiamo alla raccolta delle olive. Semplicemente abbiamo uno strumento in più, la nostra videocamera, con cui documentiamo e mostriamo con le immagini cosa succede, come Israele viola quotidianamente il diritto e ci nega la nostra dignità, sperando che prima o poi il mondo faccia qualcosa. 

"Noi giornalisti palestinesi non siamo eccezionali rispetto alla nostra gente. Partecipiamo insieme a loro alla lotta quotidiana contro l’occupazione, semplicemente abbiamo uno strumento in più: la videocamera"

Negli ultimi due anni, i media occidentali sono stati spesso criticati per il modo in cui hanno raccontato il conflitto. Abbiamo fallito?

Sì, decisamente. Certo non tutti, ma molti, soprattutto i media mainstream. Si è dato senza problemi la parola ai coloni, che hanno potuto esporre i loro piani per l’espulsione dei palestinesi e le peggiori idee razziste, mentre chi ha osato dire qualcosa contro Israele, per esempio parlando di apartheid e occupazione, è stato spesso etichettato come antisemita per ridurlo al silenzio. Anche raccontare quello che è successo a Gaza come una guerra tra due parti alla pari ha contribuito a legittimare il genocidio, come è assurdo che ora parlino di pace.

Gaza e la scorta mediatica, conversazione con Raffaele Oriani

Cosa ci vuole perché si parli davvero di pace?

Smantellare il sistema di apartheid e porre fine una volta per tutte all’occupazione. Esattamente il contrario di ciò che Israele sta facendo con la complicità di quegli Stati che dicono di essere democratici e di rispettare il diritto internazionale. La maggior parte delle armi che uccidono i palestinesi vengono da Stati Uniti, Germania, Italia, le relazioni commerciali continuano come se nulla fosse, il soldato che ha ucciso il mio amico può farsi tranquillamente una vacanza nelle vostre città e poi tornare a commettere crimini senza che gli succeda niente. È tutto un sistema che ha fallito: se succede con noi, succederà di sicuro altrove in futuro.

Negli ultimi mesi, l’Italia ha visto una mobilitazione enorme per la Palestina. Cosa può fare di più chi è sceso in piazza?

Sono convinto che queste iniziative civili, le proteste, la flotilla, gli appelli al boicottaggio, siano la vera ragione che ha spinto Trump a spingere per un accordo. Altrimenti il genocidio sarebbe continuato. Quindi bene, ma l’occupazione e l’apartheid sono ancora in piedi. Quindi vi dico: per favore, continuate questo lavoro straordinario, anzi fate ancora di più finché finalmente tutti potranno godere di un futuro in Palestina.

Chi guadagna sul genocidio? Il report di Francesca Albanese

Domani Udine ospiterà il match Italia-Israele per le qualificazioni ai mondiali di calcio dell’anno prossimo. Molti hanno chiesto (invano) che non si giocasse, sei d’accordo?

Sì, Israele deve pagare un prezzo per i propri crimini. Se gli scambi sportivi, commerciali, comprese le armi, turistici, politici continuano normalmente, perché dovrebbe smettere di violare i diritti dei palestinesi? 

Hai quasi trent’anni: come immagini la Palestina tra altri trenta?

Non lo so. Non è il tempo che cambia le cose, ma le azioni. Se le persone continueranno a mobilitarsi e i governi si decideranno a fare qualcosa, allora potremo sperare e parlare di un futuro diverso. Ora, però, è difficile avere speranza.

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