Ghousoon Bisharat, direttrice di +972 Magazine (foto di Francesco Cuoccio, International journalism festival 2025)
Ghousoon Bisharat, direttrice di +972 Magazine (foto di Francesco Cuoccio, International journalism festival 2025)

+972 Magazine, l'informazione fuori dal coro in Israele e Palestina

Fondato da un collettivo di giornalisti israeliani e palestinesi, il giornale online sfida la narrazione mainstream e la censura militare con inchieste e reportage in inglese da Gaza, Cisgiordania e Israele. "Andare controcorrente è diventato un rischio", racconta la direttrice Ghousoon Bisharat

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

26 agosto 2025

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Tre cifre, quelle che compongono il prefisso telefonico comune a israeliani e palestinesi. Fondata nel 2010 da un collettivo di giornalisti di entrambe le nazionalità, la testata online +972 Magazine si è affermata negli ultimi anni, e in particolare dopo il 7 ottobre, come una rara fonte di informazione indipendente su ciò che succede a Gaza, in Cisgiordania e in Israele. Alcune inchieste, come quella sull’utilizzo da parte dell’esercito israeliani di sistemi di intelligenza artificiale per selezionare gli obiettivi dei bombardamenti, hanno avuto risalto internazionae e due collaboratori, Basel Adra e Yuval Abraham, hanno ricevuto l’Oscar per il documentario No Other Land (leggi qui la recensione) sulle espulsioni dei palestinesi a Masafer Yatta. Oggi il pubblico continua a crescere, ma il lavoro dei giornalisti si fa sempre più difficile, come racconta a lavialibera la direttrice Ghousoon Bisharat

A Gaza Israele fa strage dell'informazione

Ghousson, cosa significa fare informazione indipendente oggi in Israele e Palestina?

"Bene chiedere l'ingresso dei giornalisti stranieri a Gaza, ma far passare l'idea che altrimenti non c'è nessuno che racconti cosa succede significa disumanizzare i palestinesi"

Significa essere voci di dissenso e affrontare le conseguenze di questa scelta. Le difficoltà più grandi le stanno incontrando ovviamente i nostri collaboratori a Gaza. Ne avevamo cinque, ma ad aprile due hanno lasciato la Striscia quando ancora era possibile farlo. Dei tre che rimangono, una ha scritto qualche giorno fa che sta soffrendo la fame e non riesce a concentrarsi come al solito. Ha due figli che ogni giorno deve pensare a come sfamare e tenere in salute. Se fossi al suo posto, non credo sarei capace di continuare a scrivere come sta facendo, senza cibo, sotto le bombe e con enormi problemi di comunicazione. Per questo, sono d’accordo con chi chiede l’ingresso dei giornalisti stranieri, ma far passare l’idea che altrimenti non c’è nessuno che racconta cosa succede è un altro modo per disumanizzare i palestinesi. I giornalisti a Gaza ci sono, e stanno facendo un lavoro incredibile in condizioni atroci.


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E fuori dalla Striscia?

È difficile parlare di rischi e pericoli quando hai colleghi a Gaza, perché niente si avvicina a ciò che stanno affrontando loro. Anche al di fuori, però, gli ostacoli non mancano: in Cisgiordania i nostri giornalisti fanno sempre più fatica a muoversi per i checkpoint e si stanno moltiplicando gli attacchi dei coloni e dell’esercito. In Israele, invece, la sfida più grande è l’autocensura: il clima è così violentemente favorevole alla guerra e ostile ai palestinesi che andare controcorrente diventa un rischio. In parallelo c’è la censura vera e propria: Israele è l’unico Stato che si dice democratico e prevede per legge che tutti gli articoli che riguardano l’esercito e la sicurezza debbano passare il vaglio di un organo militare, che spesso ordina di eliminarli o riscriverli. Anche noi siamo costretti a stare alle regole e negoziare, anche se preferiremmo non farlo.

Alla Knesset, il parlamento israeliano, è in discussione una legge per colpire con tasse altissime le organizzazioni che ricevono finanziamenti dall’estero. Potrebbe avere un impatto sulla vostra redazione?

Per come la proposta è scritta al momento no, perché parla di finanziamenti da governi stranieri e noi non ne riceviamo. Ma non è da escludere che decidano di allargare il campo anche alle donazioni private o che introducano restrizioni per chiunque lavori contro gli interessi dello Stato, o altre formule simili. In quel caso diventerebbe un problema. 

Eppure +972 Magazine continua a crescere.

Sì. Fortunatamente, o sfortunatamente perché è conseguenza del genocidio che continua, raggiungiamo sempre più persone in tutto il mondo, che trovano da noi l’informazione che manca altrove. Siamo cresciuti di dieci volte dopo il 7 ottobre e oggi abbiamo una media di 120mila lettori al mese. Nell’ultimo anno sono stati 1,6 milioni per 3,6 milioni di visualizzazioni.

Cosa cerca chi sceglie il vostro giornalismo?

Il nostro è un modello singolare: siamo l’unico media binazionale in inglese che pubblica inchieste, reportage, analisi e opinioni su Israele e Palestina scritti per la maggior parte da giornalisti che vivono qui. Crediamo in un giornalismo indipendente, accurato e onesto, che offre uno sguardo d’insieme su ciò che succede in questa terra portando prospettive spesso trascurate, ignorate o marginalizzate nella narrazione mainstream e unendo i puntini.

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In che senso?

Fare informazione da qui significa per noi concentrarci sulle asimmetrie e sugli abusi di potere di un regime basato sull’occupazione, sull’aparthaid e sulla cancellazione della popolazione palestinese e mostrarli nelle loro diverse forme. Copriamo Gaza, e non dal 7 ottobre, ma anche la Cisgiordania, dove sta procedendo un’annessionede facto, e Israele, dando voce ai manifestanti e agli obiettori di coscienza che si oppongono al genocidio e raccontando le discriminazioni verso i palestinesi con cittadinanza israeliana, spesso dimenticati. Sono violenze con diversi gradi di brutalità, ma tutte importanti e parte di uno stesso disegno.

Come vi collocate rispetto al panorama mediatico israeliano?

"Insieme a pochissimi altri siamo voci fuori dal coro. In Israele, la larghissima maggioranza dei media contribuisce al genocidio legittimando le politiche del governo"

Insieme a Local call (la testata “sorella” in ebraico, ndr) e pochissimi altri come Haaretz, siamo voci fuori dal coro. La larghissima maggioranza dei media contribuisce al genocidio appoggiando la prosecuzione della guerra e legittimando le politiche di Israele. Alcuni giornalisti parlano apertamente dell’apertura dei canali umanitari nella Striscia come una sconfitta e dicono che quella della fame sia propaganda di Hamas.

In passato hai lavorato per grandi media internazionali. In cosa il vostro lavoro è diverso?

Spesso i media internazionali si limitano a raccogliere testimonianze che poi vengono inserite in articoli scritti da altri a Gerusalemme, Tel Aviv, Londra o New York. Noi invece pubblichiamo ciò che i nostri giornalisti ci mandano senza alcun filtro se non le normali attività di editing e fact-checking. Loro stanno vivendo quella storia, loro la raccontano.

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