21 dicembre 2023
Sarà l’abitudine ad abbuffarsi di notizie sensazionalistiche o forse è l’assuefazione alla violenza di una società che si è solo illusa di essere “migliore” rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Di certo, nel racconto della guerra offerto dai media è sempre più evidente l’esaltazione del conflitto, con opinionisti ed esperti più o meno accreditati che aizzano gli animi e sbraitano le loro ragioni. E chi si dissocia, provando ad analizzare il problema da un punto di vista alternativo, focalizzato più sulla risoluzione che sulla rivendicazione, è puntualmente isolato.
Guerra in Ucraina, giornalismo vittima della propaganda
Secondo Annabel McGoldrick – che insieme a Jake Lynch ha ripreso le teorie sul giornalismo di pace, risalenti alla metà degli anni Sessanta, del sociologo Johan Galtung e della politologa Mari Holmboe Ruge – i reportage di guerra prediligono le fonti “ufficiali”, sono propensi a concentrarsi su eventi spesso drammatici, violenti e improvvisi e, soprattutto, tendono a rappresentare un conflitto come uno scontro tra due parti, quasi fosse un incontro di boxe dove la vittoria dell’uno è unicamente possibile previa la sconfitta dell’altro.
La narrazione distorta della guerra ha spesso origine proprio sul campo di battaglia, dove i media fanno fatica a raccogliere informazioni di prima mano. È quanto sta avvenendo oggi a Gaza, dove il governo israeliano, a parte qualche eccezione, vieta ai giornalisti stranieri di accedere autonomamente. Il racconto è quindi affidato esclusivamente a reporter gazawi, che al pari dei civili non possono in alcun modo lasciare la Striscia. Tra loro c’è chi ha perso la casa o i propri cari durante i bombardamenti delle forze di difesa israeliane, come Wael Al-Dahdouh, cronista a capo dell’ufficio di Al Jazeera. Mentre era in onda, ha ricevuto la notizia che un raid aereo aveva sterminato la sua famiglia: moglie, figlia e figlio rimasti sepolti sotto le macerie della casa in cui si erano rifugiati. E che ritenevano un luogo sicuro.
Cosimo Caridi, giornalista freelance con base in Germania, da circa 20 anni segue con interesse la questione palestinese. Dal 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas in Israele, ha scelto di raccontare ciò che sta accadendo sul suo profilo Instagram. "Con la mia compagna abbiamo lavorato in quei posti, conosciamo molta gente sia in Israele che in Palestina e vista l’impossibilità di andare, ogni giorno mi informo con fonti che reputo attendibili. Prima di pubblicare verifico sempre che l’informazione sia veritiera, sono un giornalista e non un influencer".
Non mi fido dei giornali. Il nostro numero sul mondo del giornalismo
La posizione di Caridi sul conflitto è molto chiara. "Molti parlano di questa guerra senza essere mai stati in Israele e in Palestina. Ho sempre pensato che vi siano un oppresso e un oppressore, ma questo non significa giustificare l’operato di Hamas. Quanto accaduto il 7 ottobre è orribile, ma altrettanto crudele e sproporzionata è la reazione di Israele".
Israele vieta ai giornalisti stranieri di accedere autonomamente all’interno della Striscia, così il racconto è affidato solo ai reporter gazawi
Dal 2014, durante i conflitti, a parte qualche deroga, Israele vieta l’ingresso a Gaza ai giornalisti stranieri. "In altri momenti le vie di accesso sono due – spiega Caridi – il varco di Rafah in Egitto ed Erez, al confine con Israele, dove sia per entrare che per uscire è necessario ottenere il permesso del governo. Il giornalista firma la censura militare e gli israeliani controllano il materiale prodotto durante il soggiorno a Gaza. Il problema è che se il racconto è affidato esclusivamente a giornalisti gazawi, non possiamo aspettarci una cronaca obiettiva. Accedere alla Striscia è fondamentale perché quello che manca sono le storie delle persone. È vero, ci sono i social network, ma gli utenti spesso non hanno la capacità di verificare l’informazione. Ad esempio, c’è un pagina su Instagram, Eye on Palestine, che pubblica informazioni vere e altre propagandistiche. Il fruitore medio dei social non sempre è in grado di discernere tra cosa è vero è cosa è falso".
A minare la libertà d’informazione e l’autonomia dei media ha contribuito l’invettiva lanciata da Israele ad alcuni giornalisti gazawi che hanno filmato e fotografato il blitz di Hamas, ritenuti complici dei miliziani. "Se vengo a sapere per vie traverse che devo farmi trovare in un posto a un determinato orario io vado. Questo mestiere funziona da sempre così, il nostro compito è raccontare ciò che accade e il fatto che i cronisti gazawi fossero presenti non significa siano complici della barbarie di Hamas".
In passato Caridi ha anche incontrato persone appartenenti all’organizzazione politica islamista. "Da cronista penso sia stato giusto farlo. Fino a sei-sette anni fa Hamas era solo un gruppo di miliziani che andava in giro a drappelli, ora hanno imparato a muoversi a livello militare e questa evoluzione ha permesso loro di pianificare e realizzare il massacro del 7 ottobre. Il giudizio militare non è un giudizio morale, può essere anche vero che l’organizzazione si nasconda dietro i civili e che le basi siano negli ospedali, ma nulla può giustificare la strage compiuta da Israele".
Alessandra Buzzetti, corrispondente da Gerusalemme per Tv2000, vive da cinque anni in Israele. "Entrambi i fronti provano un dolore così forte che sembrano accecati dall’odio. Qualche settimana fa ho incontrato una donna la cui zia era ostaggio di Hamas, mi ha detto che non vuole più vedere bimbi morti, né in Israele e né a Gaza. Gli israeliani hanno vissuto il 7 ottobre come un secondo Olocausto e non hanno ancora elaborato il lutto; nelle prime fasi dell’offensiva su Gaza il Paese si è mostrato molto unito, poi le cose sono cambiate e il fronte che si oppone alla politica di Netanyahu, già vigoroso prima dell’attacco terroristico, è tornato a farsi sentire. La gente è molto arrabbiata e secondo gli ultimi sondaggi il Likud (il partito nazionalista liberale e di destra di cui fa parte il primo ministro israeliano, ndr) è crollato a percentuali molto basse".
I reportage di guerra prediligono le fonti “ufficiali” e, soprattutto, tendono a rappresentare un conflitto come lo scontro tra due parti
Nel frattempo in Europa continuano a svolgersi manifestazioni di solidarietà a favore della Palestina. "Ogni volta che gli israeliani vedono in tv le immagini di quei cortei rimangono attoniti, non riescono a spiegarsi come mai i popoli occidentali non stiano dalla loro parte. Sono soprattutto i giovani a sentirsi coinvolti nel conflitto e la parola riconciliazione, che già prima del 7 ottobre era un tabù, ora è proprio fuori dal vocabolario. Anche il tema dei 'due Stati per due popoli' sembra appartenere più agli altri, qui una soluzione simile non viene neppure presa in considerazione".
Sul racconto del conflitto e il veto di Israele ai giornalisti stranieri, l’inviata spiega: "Dopo la prima fase, oggi all’interno della Striscia è possibile entrare. C’è una lista, ti chiamano all’alba e i militari ti accompagnano nelle zone che loro definiscono “ripulite”. Nulla di nuovo, nelle ultime guerre o vai embedded (al seguito dell’esercito) oppure niente, l’inviato vecchio modello che si muove “da solo” è merce rara. Il rischio di raccontare i conflitti in questo modo è il proliferare di un’evidente propaganda da entrambi i lati, che non fa altro che peggiorare la situazione".
Nico Piro, inviato speciale del Tg3 Rai, è autore del libro Maledetti pacifisti. Come difendersi dal marketing della guerra (Ed People, 2023), scritto nei giorni in cui la Russia occupava l’Ucraina. "Con pochissime eccezioni, la nostra stampa sin dal 24 febbraio del 2022, giorno dell’invasione russa, si è allineata con quello che ho definito 'Pub', il Pensiero unico bellicista. Abbiamo visto giornali trasformarsi in cataloghi di armi, le dichiarazioni ufficiali di Kiev equiparate in automatico a verità incontestabili, le posizioni di Mosca trasformate in bugia sistematica, pattuglie di opinionisti con l’elmetto pontificare a reti e pagine unificate per tifare guerra senza alcuna competenza né geopolitica, né sui conflitti. La sofferenza dei civili è stata usata per costruire cataloghi delle colpe del nemico, quindi per trovare motivi ulteriori per giustificare la prosecuzione della guerra".
“Nelle ultime guerre o vai embedded oppure niente, l’inviato vecchio modello che si muove da solo è merce rara”
Una situazione che pare si stia ripetendo, seppure in termini differenti, in Medio Oriente. "Sì, ma con una differenza imbarazzante per l’Occidente, il cambio di standard. Le azioni che facevano invocare l’intervento della Corte penale internazionale e indignavano politici e giornalisti, parlo degli attacchi sugli ospedali o l’uccisione indiscriminata di non combattenti, oggi diventano accettabili perché a compierle è un nostro alleato. C’è chi è arrivato a fare paragoni con i feroci bombardamenti alleati sulle città della Germania per giustificare le azioni di Israele. Se ne desume che esistono crimini di guerra buoni e crimini di guerra cattivi, un po’ come noi occidentali facciamo con i dittatori. Siamo contro Putin ma stringiamo la mano ad Erdogan o a Mohammed Bin Salman".
Intanto quello che non è mai cambiato è il rischio professionale dell’inviato di guerra. "Il conflitto in Medio Oriente è una mattanza di giornalisti; 68 tra cronisti e operatori dei media uccisi, tra loro 61 palestinesi, 4 israeliani, 3 libanesi; 13 giornalisti feriti; 3 dispersi; 20 arrestati e casi diffusi di minacce alle loro famiglie (Dati del Comitato per la protezione dei giornalisti, aggiornati al 19 dicembre 2023, ndr)".
I processi contro i crimini di guerra hanno degli effetti collaterali (positivi)
Novaja Gazeta è un periodico russo pubblicato a Mosca dal 1993, da sempre avverso alle politiche di Vladimir Putin. In questi 30 anni il giornale ha perso sei redattori, uccisi per non essersi piegati alle volontà del governo. Tra le vittime figura Anna Politkovskaja, assassinata nel 2006 per avere denunciato Putin e gli abusi dell’esercito russo in Cecenia. Con l’avvio dell’operazione militare in Ucraina, la stretta sul periodico è aumentata a dismisura, tanto da costringere il giornale a sospendere le pubblicazioni. Il governo ha quindi revocato le licenza dell’edizione cartacea e di quella online, con la stretta che ha portato un gruppo di redattori ad aprire un’edizione parallela in Lettonia: Novaja Gazeta Europe. L’obiettivo del governo è silenziare gli oppositori e Novaja Gazeta è in cima alla lista.
In Israele il quotidiano progressista Haaretz, fondato più di 100 anni fa, dopo l’attacco di Hamas e la controffensiva dell’esercito israeliano, ha duramente criticato il primo ministro Benjamin Netanyahu. Il giornale non ha mai giustificato le atrocità commesse dai miliziani, ma al tempo stesso ha scelto di raccontare senza veli ciò che sta accadendo all’interno della Striscia. Per questo motivo è finito nell’occhio del ciclone, con il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi che ha proposto di sanzionare il quotidiano, accusato di "propaganda bugiarda e disfattista" nonché di "sabotare Israele in tempo di guerra".
Il governo, che vorrebbe cancellare i finanziamenti e gli abbonamenti istituzionali al giornale, lo scorso 20 ottobre ha anche disposto un regolamento che consente di chiudere e bloccare temporaneamente i media stranieri ritenuti dannosi per il Paese.
L’editore Amos Schocken, ha commentato così la proposta di Karhi: "Se il governo vuole chiudere Haaretz, è il momento di leggere Haaretz". A fianco del quotidiano, oltre a un nutrito gruppo di cronisti internazionali, tra cui la Federazione della stampa italiana, si è schierato il sindacato israeliano dei giornalisti: "Noi sosteniamo Haaretz e siamo certi che continuerà a svolgere un lavoro importante a beneficio di Israele, senza lasciarsi scoraggiare dalle stupide e vuote minacce del ministro Karhi".
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