11 luglio 2024
Almeno 17 morti, la maggior parte donne e bambini: è il bilancio (provvisorio) dell'ultimo attacco israeliano su obiettivi civili a Gaza, che questa mattina ha colpito una scuola usata come rifugio nel campo profughi di Nuseirat. Il quinto bombardamento contro un edificio scolastico negli ultimi otto giorni. "È uno sterminio, ma alla comunità internazionale non frega niente", denuncia Nurit Peled-Elhanan, accademica israeliana premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 2001. Allora, davanti al Parlamento europeo che le aveva attribuito il riconoscimento, aveva detto: “Non è per me, ma per quella voce che la morte mi ha consegnato e che politici e generali vogliono soffocare”.
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La morte l’aveva incontrata quattro anni prima, nel 1997, quando la figlia Smadar, allora 13enne, era stata uccisa in un attentato compiuto da un giovane palestinese a Gerusalemme. Studiosa del legame tra linguaggio e violenza, dopo i massacri del 7 ottobre è stata minacciata di sospensione dal preside del David Yellin College of Education, dove lavorava, per aver ricordato in una chat con i colleghi l’oppressione di cui è vittima da decenni la popolazione di Gaza. “Avevo detto che mi sarei dimessa se la lettera di rimprovero nei miei confronti non fosse stata ritirata, e così ho fatto”, dice a lavialibera.
Professoressa, sono passati nove mesi dal 7 ottobre e la guerra continua con decine di migliaia di vittime: vede una via d’uscita?
La via d’uscita è uscirci, farla finire. E chi non vuole è il governo di Israele, per diversi motivi. Uno di questi è che, in fondo, ha sempre voluto avere il controllo su Gaza e stabilirci insediamenti. Alcuni ministri lo dichiarano apertamente. Ora vedono un’opportunità per realizzare questo progetto.
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Cosa è successo da quando ha preso posizione contro la guerra?
Ho ricevuto migliaia di minacce e intimidazioni. Sono stata anche convocata dalla polizia per un mio presunto video in cui chiamavo gli assassini di Hamas “eroi”: ho chiesto di mostrarmi quel video, mi è stato detto che non esisteva più e il caso è stato chiuso. È il governo che fa pressioni sugli istituti perché segnalino chi esprime opinioni critiche. Insomma, non è stato piacevole, ma alcuni colleghi hanno subito di peggio, specialmente quelli palestinesi (con cittadinanza israeliana, ndr). Ma il mio caso ha anche innescato processi positivi: altri insegnanti del College, indignati per quello che mi è successo, hanno creato il gruppo “Safe space for teachers” che ora sta elaborando un codice etico per garantire la libertà d’espressione e evitare ingerenze in futuro.
"Israele è sempre stato tra i paesi più avanzati in fatto di libertà accademica. Ora il clima sta peggiorando. In Europa e America, forse, è anche peggio
Cosa ci dice questo clima dello stato della libertà accademica e di espressione, in Israele e in Occidente?
Ho sempre sostenuto che Israele fosse tra i paesi più avanzati in fatto di libertà accademica. Ho sempre costruito i miei corsi in totale autonomia, detto e fatto quello che volevo in classe e nessuno mi ha mai sorvegliata o criticata finché gli studenti erano soddisfatti. Non è scontato, in molti altri paesi non è così. Negli ultimi mesi però il clima è peggiorato di molto, e continua a peggiorare. In parlamento sono state presentate proposte di legge che obbligano a segnalare insegnanti e studenti che esprimessero “sostegno al terrorismo” (di cui le autorità israeliane danno una definizione estremamente ampia e discrezionale, come sottolineato dall’Association for civil rights in Israel, ndr) o opinioni “contro lo Stato”. Un insegnante, Meir Baruchin, è stato licenziato, arrestato e addirittura incarcerato per aver pubblicato messaggi contro la guerra. Ora il tribunale gli ha dato ragione e potrà tornare ad insegnare. Casi simili sono successi anche in Europa e America, anzi forse lì la situazione è ancora peggiore.
Che pensa delle proteste pro-Gaza che si sono diffuse nei campus universitari di diversi paesi occidentali?
Qui in Israele gli studenti che manifestano vengono dipinti come pericolosi antisemiti. Io spero possano aiutare a smuovere qualcosa nei governi di quei paesi, anche se mi sembra che questo non stia succedendo.
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Alcuni chiedono di interrompere i rapporti con le università israeliane: non corriamo il rischio di isolare ulteriormente chi, come lei, cerca di portare un discorso critico “da dentro”?
Credo sia giusto esaminare con l’attenzione necessaria i singoli casi, ma in linea generale penso che interrompere le relazioni con le università come istituzioni sia la cosa giusta da fare nella misura in cui queste collaborano con l’occupazione.
Nel 2012 ha spiegato in un libro (La Palestina nei testi scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione, Edizioni Gruppo Abele, ndr) come il linguaggio e le rappresentazioni dell’altro alimentano la violenza. Vede un legame con ciò che sta succedendo oggi?
"Nelle scuole israeliane vige l'educazione all'ignoranza: non si racconta nulla della storia della Palestina e dei palestinesi, ma neppure dei leader delle rivolte nei ghetti che non erano sionisti"
Certamente. Il mio studio si è concentrato sui libri di testo usati nelle scuole israeliane, pieni di rappresentazioni razziste e disumanizzanti dei palestinesi, che vengono dipinti solo come una minaccia, ma anche degli ebrei arabi ed etiopi. È un’educazione all’ignoranza: i ragazzi israeliani non sanno nulla della storia della Palestina, soltanto che gli ebrei l’abitavano migliaia di anni fa, ora sono tornati e affrontano la minaccia di un “nuovo Olocausto”. Il ruolo dello sterminatore è passato dai nazisti ai palestinesi. Non conoscono nulla nemmeno della storia degli ebrei al di fuori di Israele, al di là dell’Olocausto. Nei libri scolastici si parla delle rivolte nei ghetti durante la Seconda guerra mondiale, ma senza mai menzionare che tra i leader c’erano anche personaggi anti-sionisti come Marek Edelman. Ovviamente questo ha un impatto su ciò che i giovani pensano.
E sullo spirito con cui poi aderiscono al servizio militare, immagino.
Certo. Il servizio militare viene presentato ai bambini come una responsabilità sin dalla scuola dell’infanzia. Pensi che uno degli auguri più frequenti che vengono rivolti alle future madri è “che diventi un buon soldato”.
Che ruolo giocano i giornali e le televisioni nel costruire e rafforzare queste rappresentazioni?
In questo momento la maggior parte dei media israeliani è completamente allineata con il governo. Non vediamo e leggiamo nulla su Gaza, se non le gesta dei nostri “coraggiosi soldati”. Ora hanno anche impedito ad Al Jazeera di trasmettere dal territorio israeliano. Non c’è possibilità di conoscere cosa succeda al di là del muro.
Sono passati 23 anni da quando il parlamento europeo le ha consegnato il premio Sacharov. Se potesse rivolgersi oggi ai nuovi deputati, cosa direbbe?
Direi che è in corso un nuovo sterminio, questa volta ai danni dei palestinesi. Spesso ci si chiede “com’è possibile che siamo stati in silenzio mentre gli ebrei venivano sterminati?”. Ecco com’è possibile: sta succedendo sotto i nostri occhi, con i palestinesi. Ma non mi faccio illusioni: gli Stati europei non hanno interesse nel fermare la guerra e l’occupazione perché ne traggono beneficio, soprattutto per il commercio di armi. Anche l’Italia. Allora si ricorre alla manipolazione del senso di colpa: durante l’Olocausto non abbiamo fatto niente, quindi oggi dobbiamo stare con Israele senza se e senza ma. Ma questa è una scusa.
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Crede che anche l’antisemitismo venga talvolta strumentalizzato?
Certo. Israele si è sempre erto a rappresentante di tutti gli ebrei, quindi ogni critica verso le sue azioni è letta come un attacco a tutti gli ebrei. Invece gli ebrei in tutto il mondo dovrebbero affrancarsi, dire forte e chiaro “noi non siamo questo”. Alcuni lo fanno, tanti altri no. Intanto a Gaza continuano a morire bambini, mentre nessuno è mai morto per essere stato accusato di essere antisemita. Se è il prezzo da pagare per salvare anche solo un bambino, allora ne vale la pena.
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