26 gennaio 2024
Scavare nei buchi e nei momenti inquieti della nostra storia. Secondo David Bidussa, storico sociale delle idee, è questo (o dovrebbe essere questo) il senso della giornata della memoria. Le rievocazioni servono a poco, perché “ciò che occorre è entrare nella struttura mentale e culturale che ha messo in atto i processi di discriminazione e capire quanto del linguaggio di oggi riproponga ancora a quelle dinamiche”. Intervistato alla vigilia della ricorrenza, lo storico spiega perché la memoria dell’Olocausto non ha mai innescato, in Italia, percorsi di riflessione critica.
Professore, che giorno della memoria celebriamo quest’anno?
La ricorrenza di quest’anno si inserisce in un contesto divisivo e problematico, segnato da un uso di quella storia molto politico e poco culturale: c’è pochissima voglia di scavare e moltissima voglia di utilizzare. In realtà, credo sia sempre stato così, perlomeno in Italia.
Cosa intende?
Siamo immersi in un modello culturale per cui si scava poco nel passato, e quando ci si guarda indietro lo si fa con un misto di nostalgia e affetto. Nella cultura italiana, nessuno ha mai intrapreso un’analisi di controstoria vera, che non significa rovesciare la realtà, ma guardare al passato, ai buchi e ai momenti inquieti della storia, per migliorarsi, e non solo per celebrare il ritratto di sé. Non significa neanche fare una semplice autocritica, cioè dire “io quelle cose non le rifarei più”, ma fare i conti con il fatto che nel passato non hai avuto problemi a fare quelle cose.
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Come impatta quello che è successo il 7 ottobre in Israele e la guerra su Gaza che è seguita?
Sicuramente mette in discussione una partecipazione corale alla giornata della memoria. Ciò è dovuto al fatto che abbiamo costruito questa ricorrenza attorno alla figura delle vittime, per cui tendiamo a trovare nel presente altre vittime a cui dare solidarietà. In realtà, il giorno della memoria non nasce con questo obiettivo. Nasce per individuare dei diritti fondamentali che possano fare da impalcatura per la futura Europa, per affermare cosa vogliamo essere, come ci definiamo rispetto a ciò che nella storia siamo stati. Quindi la riflessione dovrebbe concentrarsi sui carnefici e sugli spettatori, su chi ha detto “non sono fatti miei”, e dovrebbe portarci a fare i conti con le rispettive culture ed eredità. Le vittime sono un pezzo di quella storia, non il centro. Invece, per non disturbare nessuno, questi conti non li abbiamo fatti.
Dal 7 ottobre sentiamo sia israeliani che palestinesi paragonare la propria sofferenza alla Shoah: ha senso? Non c’è il rischio di strumentalizzare, semplificare, ridurre a un'immagine iconica tragedie differenti (ma pur sempre tragedie)?
Chi usa quel paragone in maniera piatta, da una parte e dall’altra, lo fa perché non ha categorie diverse. Genocidio, crimine di guerra, crimine contro l’umanità non sono la stessa cosa, corrispondono a pratiche diverse e hanno anche sanzioni diverse nel diritto. Il senso della memoria non è quello di cercare amici o nemici, chi ha ragione e chi ha torto, ma analizzare tenendo insieme anche elementi contraddittori. Non c’è mai un colpevole e un innocente assoluto. Ci sono scelte politiche e culturali che riguardano tutti gli attori in gioco, una non responsabilizzazione sulla necessità di trovare soluzioni a un conflitto, quello israelo-palestinese, che dura da decenni.
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Ma poi, perché non riusciamo a riconoscere ciò che avviene senza paragonarlo a qualcosa di avvenuto nel passato?
Perché crediamo che il paragone con il passato possa dirci da che parte stare, che la soluzione di prima possa darci la risposta ai problemi di ora. Ma questa è commedia, non è fare storia. In storia il paragone serve per capire la differenza, non l’analogia. E questo lo si fa partendo dal presupposto che gli attori che agiscono nel presente non sono mai la riproposizione di quelli del passato.
L’impressione è che si commemori qualcosa di lontano nello spazio e nel tempo, dimenticandoci che ciò che rappresenta la Shoah è la possibilità per gli uomini, italiani inclusi, di rendere razionali violenze e genocidi, trovarne spiegazioni pubbliche e quindi sostegno.
"La storia della Shoah insegna che gli stermini non sono fatti da persone efferate, ma da persone che obbediscono agli ordini. E questa è una modalità d'azione che fa parte della nostra quotidianità, oggi"
La storia della Shoah insegna che gli stermini non sono fatti da persone efferate, ma da persone che obbediscono agli ordini. E questa è una modalità d’azione che non è finita il 9 maggio 1945, ma che riguarda ognuno di noi, ogni giorno e in qualsiasi contesto. Gli stermini finiscono, ma rimangono delle modalità di comportamento, di decisione sulla vita degli altri o di deresponsabilizzazione sulle proprie scelte che sono parte del modello comportamentale che è radicato nella nostra quotidianità.
Sembrava che il giorno della memoria potesse mettere d’accordo tutti. Non è più così?
Non penso sia mai stato così, e personalmente non credo potesse esserlo da subito. Poteva indicare un percorso di riflessione, che però non c’è mai stato e non credo ci sarà per i motivi che ho discusso prima. Per questo non so se il giorno della memoria avrà un futuro.
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Qualche giorno fa, il presidente del Senato Ignazio La Russa, che non nasconde di conservare cimeli di Mussolini a casa, ha presenziato una commemorazione al Binario 21 a Milano al fianco di Liliana Segre: contraddizione o segno di una destra che ha fatto i conti con il passato?
"La destra italiana non ha mai fatti i conti con il suo passato, perché l'opinione pubblica non glielo chiede. Riflettere sul giorno della memoria significa ragionare sull'origine dei processi discriminativi, non soltanto sugli stermini che possono produrre"
A me non sembra che la destra abbia fatto i conti con il suo passato, ma non ha bisogno di farli, perché l’opinione pubblica non glielo chiede. Perché un percorso di riflessione critica abbia inizio, serve a poco fare rievocazioni, ciò che occorre è entrare nella struttura mentale e culturale che ha messo in atto il processo storico di cui stiamo parlando e capire quanto del proprio linguaggio di oggi appartenga ancora a quella struttura. Riflettere sul giorno della memoria significa ragionare sui processi discriminativi, da dove nascono, come vengono posti in essere, con quale ideologia sono costruiti, non soltanto sulle persecuzioni e gli stermini che possono produrre.
A proposito di memoria, ha fatto discutere la sentenza della Cassazione secondo cui il saluto romano non è reato quando ha intento commemorativo. Che ne pensa? Esiste una memoria e una celebrazione “innocua” del fascismo?
Questo mostra che l’opinione pubblica in questo paese ritiene quella memoria un fatto folklorico, non culturale. Non esiste distinzione tra un gesto commemorativo o non commemorativo: un simbolo non è un fatto del passato. Se lo coltivi e riproponi significa che ti vuoi porre in continuità con quel passato, che vuoi esprimere la validità dei contenuti che rappresenta nel presente.
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