17 maggio 2022
Non amo le celebrazioni e gli anniversari. Per quanto facciano parte dei riti che tengono coesa la società e che consentono il perpetuarsi di una memoria storica collettiva, rinnovarli nel tempo ci costringe a continue riletture, legate anche agli interpreti delle "cerimonie della memoria" che si alternano negli anni, con il rischio di stravolgere il significato originario che a quelle liturgie laiche si era voluto affidare. Mi capita spesso di tornare indietro nel tempo, senza riuscire a contenere i ricordi, nonostante a diciotto anni avessi lasciato Palermo, stanca del sangue e dell’atmosfera pesante che accompagnava la mia quotidianità.
Ricordo precisamente tutto di quei giorni. Ricordo il senso di smarrimento e l’aria irrespirabile che avvolgeva Palermo il giorno dell’omicidio di Salvo Lima, allorquando si cominciò a percepire nettamente come quel cadavere sull’asfalto fosse solo il preludio di una tragedia ben più grande che incombeva di lì a poco. Ricordo perfettamente dove mi trovavo e cosa stavo facendo quel pomeriggio del 23 maggio e poi, dopo, del 19 luglio del 1992. Come dimenticare le lacrime di uomini, donne, ragazzi in una piazza stracolma fino all’inverosimile, mentre si celebrano i funerali di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro?
Come dimenticare le lacrime di uomini, donne, ragazzi in una piazza stracolma fino all’inverosimile, mentre si celebrano i funerali di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro?
Come non ripensare alle parole di Rosaria Costa, giovane moglie di Vito Schifani, che chiede ai mafiosi – con voce decisa seppur rotta dal pianto – di inginocchiarsi e di cambiare? E come scordare il viso terreo di Paolo Borsellino, accorso a commemorare le vittime di Capaci presso l’atrio della Biblioteca comunale, qualche giorno prima di essere anch’egli ucciso? Immagini che si accompagnano a quelle della fuga ignominiosa di autorità e politici dal mausoleo di San Domenico, come analogamente sarebbe accaduto poche settimane appresso, ai funerali degli agenti della scorta di Paolo Borsellino nella cattedrale di Palermo. I volti dei cittadini, le lacrime e la rabbia, e poi i lenzuoli apparsi sui balconi della città per testimoniare il desiderio di esserci e di ottenere verità e giustizia.
Il ricordo si fissa, quindi, sulle facce di quei tanti cittadini che marciano alla prima manifestazione organizzata da Palermo Anno Uno, dopo la strage di Capaci, un enorme corteo di quasi centomila persone che si snoda per le vie di Palermo. Immagini che ancora oggi tornano alla memoria, ora che finalmente sembra più vicino il tempo di conoscere e capire, andando oltre le apparenze, gli inganni e i depistaggi.
Trattativa Stato-mafia: sui media più spazio alle assoluzioni che ai fatti storici
La inusitata violenza delle stragi, esagerata e plateale, a tanti di noi è apparsa fin da subito eccessiva, fin troppo studiata e professionale, quasi come la "geometrica potenza di fuoco" di via Fani. Lo abbiamo detto e scritto in tante occasioni: era facile comprendere come Cosa nostra fosse solo uno degli attori responsabili di quei massacri, quello più visibile, quello che appariva sulla ribalta. Altri, però, defilati calcavano silenziosamente quella scena.
A poco a poco negli anni, sono emersi altri elementi, tutti collegati fra loro, idonei a rimettere in discussione tante delle certezze che si voleva fossero ormai assodate, e che invece oggi affogano nella tortuosa complessità di una verità giudiziaria monca e inverosimile.
Le deludenti conclusioni del processo per la mancata perquisizione del covo di Riina, lasciano ancora ampio spazio alla ricostruzione storica di quella vicenda che – diversamente da quanto si vuol far credere – fornisce più di una prova del fatto che, in quella circostanza, arcana imperii di altissimo livello hanno operato e deciso contro le regole della democrazia. Qualcuno obietterà che il codice penale ha ormai chiuso quell’indecoroso capitolo di storia giudiziaria. Quel che è vero per il diritto, non lo è necessariamente per la riflessione storica o sociologica che dispone di altri strumenti d’indagine ben più penetranti ed estesi, attraverso cui possiamo ancora mantenere viva la speranza di approfondire fatti e circostanze.
Resta da chiarire, ad esempio, che fine abbia fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino e perché non siano state debitamente approfondite le stridenti contraddizioni in cui sono incorsi testi più o meno autorevoli nel corso delle indagini per ritrovarla. Restano da chiarire le dichiarazioni di tanti collaboratori di giustizia che, in numerosi eventi processuali, accennano ripetutamente a presenze esterne a Cosa nostra coinvolte negli eccidi. Restano da spiegare le tracce di dna femminile sull’autostrada che passa per Capaci e, ancora, resta da spiegare il ruolo di una donna nella coeva strage di via Palestro.
Esistono e dove sono finiti i risultati delle investigazioni degli agenti Fbi giunti prontamente a Capaci per collaborare con gli inquirenti?
E poi, esistono e dove sono finiti i risultati delle investigazioni degli agenti Fbi giunti prontamente a Capaci per collaborare con gli inquirenti? Quanta ragione aveva Giovanni Falcone a voler meglio approfondire storie e notizie sulla presenza e il ruolo di Gladio in Sicilia? A chi erano indirizzati i messaggi di Riina quando (consapevolmente) intercettato in carcere mentre parlava con Alberto Lorusso, spiegando che dietro le stragi non c’era solo Cosa nostra?
Cosa intendeva dire Giulio Andreotti quando attribuiva agli americani la responsabilità dell’avvio del processo a suo carico? E cosa si cela dietro le più recenti esternazioni di Giuseppe Graviano quando, durante le udienze del processo ‘Ndrangheta stragista, racconta con precisione episodi “anomali” che lo hanno visto protagonista e fa riferimento a una convergenza di interessi che fa pensare a una partita ancora aperta? E quanto di questa partita ancora aperta è parte anche la mancata cattura di Matteo Messina Denaro, garante di un patto perverso e indicibile, e ancora “utile” interlocutore?
La trattativa ci fu, ma il reato fu solo dei boss
Naufragata l’indagine sulla “trattativa” – con gran soddisfazione di chi non aveva letto neanche una carta processuale di quell’inchiesta – è come se ormai ci si volesse limitare a chiudere un periodo storico sempre più scomodo, iconizzando i nomi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come eroi della patria, senza però tentare di approfondire le ragioni della loro tragica scomparsa. È come se il nostro Paese non fosse ancora pronto ad accettare terribili verità.
Naufragata l’indagine sulla “trattativa” è come se ormai ci si volesse limitare a chiudere un periodo storico sempre più scomodo, iconizzando i nomi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come eroi della patria, senza però tentare di approfondire le ragioni della loro tragica scomparsa
Dei temi che abbiamo appena accennato non si parla e non si vuol più parlare; chi tenta di addentrarsi in questi meandri oscuri, viene immediatamente etichettato come visionario o complottista. Le celebrazioni delle stragi si ripetono secondo un copione monco e alterato. La narrazione pubblica ci consegna una “verità” comoda che ci priva della dignità che solo la conoscenza – anche quella più sgradevole – può dare. Ci restituisce una democrazia priva del coraggio di guardare al fondo degli enormi crateri lasciati dalle stragi, riducendo Cosa nostra a una organizzazione ormai quasi alla deriva, e non consentendoci di onorare, insieme alla memoria di chi è morto, anche la nostra memoria e la nostra storia personale che di quegli episodi è profondamente imbevuta. È difficile in questo contesto storico politico e in questo assordante silenzio che ha circondato le vicende stragiste, auspicare che possa essere fatta chiarezza. A molti di noi, però, rimane forte il desiderio di tentare di "rovinare il gioco" facendo emergere, come scrive Bourdieu, "le imposture legittimate", continuando a chiedere che si vada al "cuore delle ferite" per restituire senso e dignità anche ai riti della memoria.
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