6 luglio 2021
Da quasi un anno e mezzo ventidue uomini e donne, arrivati da polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza e polizia penitenziaria, sono impegnati a studiare le mafie foggiane, raccogliere informazioni e analizzarle, ispezionare cantieri pubblici, passare al vaglio aziende e condurre indagini di polizia giudiziaria: “Su quest’ultimo fronte siamo impegnatissimi”, confida a lavialibera Paolo Iannucci, 55 anni, tenente colonnello dei carabinieri che, dopo anni alla Direzione centrale dei servizi antidroga, è entrato nella Direzione investigativa antimafia e ora guida la sezione operativa di Foggia. La sede, inaugurata il 15 febbraio 2020, è una delle risposte dello Stato all’escalation di violenza (leggi l'articolo di Daniela Marcone), attentati alle attività economiche e omicidi, non solo di mafiosi, ma anche di innocenti come Aurelio e Luigi Luciani, uccisi a San Marco in Lamis il 9 agosto 2017: “Credo che il segnale che abbiamo dato oggi sia importantissimo perché l’apertura di una sezione della Dia in così poco tempo e con un organico già ben definito sia un segnale concreto della presenza Stato”, diceva il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese il giorno dell’inaugurazione degli uffici all’interno della caserma “Miale” che ospitava la scuola per agenti di polizia. “La progettazione è stata fulminea – spiega il responsabile della sezione –. In due mesi e mezzo è stato creato il presidio e sono state formate le persone in arrivo da altre forze di polizia. Hanno assegnato alla sezione personale giovane, molto preparato e professionale, e inoltre non arriva dalle forze di polizia del territorio, così non abbiamo tolto energie a nessuno”. Dopo un anno e mezzo di lavoro a Foggia, Iannucci ha l’impressione “che lo Stato stia incidendo ogni giorno per intervenire in una città logorata dalla presenza della criminalità organizzata”.
Le mafie foggiane oltre il negazionismo
“Oggi non ci sono capi, né seconde linee, liberi”Paolo Iannucci - Capo sezione operativa Dia Foggia
L’apertura della sezione operativa della Dia è soltanto una delle mosse intraprese dal governo per rispondere all’emergenza Foggia: in città è arrivato il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri e lo squadrone eliportato “Cacciatori di Puglia” specializzato nella ricerca dei latitanti; sono stati inviati rinforzi alle forze di polizia già presenti; a San Severo è stato aperto un reparto prevenzione crimine della polizia di Stato ed è stata aumentata la pianta organica di procura e tribunale assegnando alcuni magistrati. In questo contesto sono state compiute due indagini molto importanti. Si tratta delle operazioni Decima azione e Decima bis che “hanno azzerato i vertici delle batterie della società foggiana”, cioè l’organizzazione mafiosa attività nella città di Foggia, nata a metà degli anni Ottanta e composta da tre “batterie” sorte dalle scissioni dell’organizzazione originaria: Moretti-Pellegrino-Lanza, Sinesi-Francavilla e Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese. Le inchieste hanno fatto luce sulle estorsioni capillari agli imprenditori e ai commercianti della città. “Oggi non ci sono capi, né seconde linee, liberi”, prosegue il tenente colonnello. La prima indagine, condotta dalla squadra mobile della questura e dal nucleo investigativo dei carabinieri e scaturita negli arresti del 30 novembre 2018, ha portato alla condanna (in primo grado) di venticinque indagati il 26 novembre scorso. Dieci giorni prima di questo verdetto è arrivato il seguito dell’indagine con i 38 arresti di Decima bis: “La mafia foggiana è divenuta il primo nemico dello Stato”, ha detto il 16 novembre il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. “Decima Azione ha creato una crisi per le finanze delle batterie foggiane – analizza Iannucci –. Non potevano più accumulare denaro necessario al mantenimento dei tanti detenuti e delle loro famiglie. Questo mancato sostentamento ha eroso il welfare mafioso”. In questo clima di difficoltà, coi capi in cella che faticano a dirigere e con le difficoltà economiche, alcuni esponenti della criminalità organizzata stanno cominciando a collaborare: “Ci forniscono un quadro più attuale rispetto a quello delle indagini cominciate pochi anni fa. Abbiamo alcuni nuovi pentiti in corso di acquisizione e stanno arrivando le condanne, basate su inchieste lunghe e documentate, che porteranno altri a collaborare”.
“È una sorta di assicurazione: se voglio star bene, devo far star bene tutti. Molti imprenditori ne sono convinti e i mafiosi pensano di averne diritto"
“Decima bis ha dato una chiave di interpretazione sulla società foggiana: si sbaglia a pensare che le tre batterie siano diverse, la società foggiana è una sola. Qualche volta qualcuno prova a fare di più e ci sono anche dei contrasti, ma Decima bis è la prova del ricompattamento delle batterie con strategie criminali e territoriali per mettersi a sistema e fare affari”, prosegue il capo della sezione. La specialità della mafia foggiana sono le estorsioni: “Anche lei si basa sulle analisi per adeguare le estorsioni o le imposizioni di prodotti e servizi. Ad esempio c’era un periodo in cui ogni agenzia funebre doveva pagare una somma fissa ogni mese alla società, storicamente inserita in questo settore come dimostra l’inchiesta Osiride. Poi si è arrivati a chiedere 50 euro per ogni funerale. Si può immaginare quanto sia stato importante questo cambio durante la pandemia”.
In merito alle estorsioni, a Foggia si parla di “tassa di sovranità”: “È una sorta di assicurazione: se voglio star bene, devo far star bene tutti. Questa è purtroppo la convinzione di molti imprenditori. I mafiosi sono convinti di aver diritto a riscuotere il pizzo e i cittadini sono convinti che si faccia così. La pressione è costante, riduce in schiavitù l’estorto e l’usurato al punto che supportano più il mafioso e non lo Stato. Molti degli imprenditori che, come documentato dalle due indagini, sono vittime della società foggiana, hanno negato tutto davanti agli investigatori. È una sorta di sindrome di Stoccolma”. A pagare il “punto” non sono soltanto gli imprenditori dell’economia lecita, ma anche i criminali comuni: “In Decima azione emerge un episodio significativo: in carcere un uomo detenuto per sfruttamento della prostituzione si è rifiutato di pagare il ‘punto’ a un mafioso che, a quel punto, gli ha negato la sua protezione”.
Rondini, mucche, rane e galline: la natura per raccontare il foggiano
Il denaro ottenuto, oltre al mantenimento dei carcerati e delle loro famiglie, è utilizzato in modo elementare: “Non si registra una crescita economica di queste organizzazioni, salvo in casi rari – premette il capo della sezione operativa –. Al mafioso foggiano piace ostentare, palesa il proprio potere con i macchinoni o la barca, compra case e terreni, cerca di insinuarsi nel tessuto economico locale”. C’è un ambito economico che predomina ed è molto tradizionale: “Negli ultimi anni la prefettura di Foggia, che la Dia supporta per i controlli sulle attività economiche, ha emesso 42 interdittive antimafia ad aziende del Gargano e del Tavoliere, aziende di tutti i generi, ma soprattutto agricole e zootecniche attive anche nell’ottenimento dei fondi pubblici come quelli dell’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura, ndr), per i quali è necessario ottenere l’informazione antimafia”, cioè il documento che certifica l’assenza di legami sospetti (tra amministratori, titolari, dipendenti e fornitori) e quindi di eventuali tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata.
Dalla Dia una proposta per fermare le mafie, ma non l'economia
"Sul Gargano controllare la terra vuol dire ingrandire il potere, la famiglia e gli affari, e poi magari avere un corridoio di terreno che permette di far passare armi e droga sbarcate sulle coste”Paolo Iannucci - Capo sezione operativa Dia Foggia
“Le interdittive sono uno strumento raffinato che potrebbe essere migliorato, ma resta comunque estremamente efficace. A Foggia queste interdittive dimostrano la genesi della mafia garganica e foggiana – prosegue –. È una regione che ha vissuto di latifondi, dove il padrone deteneva il terreno e lo dava al contadino che doveva versare una parte del guadagno. Sul Gargano controllare la terra vuol dire ingrandire il potere, la famiglia e gli affari, e poi magari avere un corridoio di terreno che permette di far passare armi e droga sbarcate sulle coste”. Nelle invasioni di terreni e nell’abigeato, cioè il furto di bestiame, va ricercata l’origine dello scontro tra le famiglie, i cui interessi si sono poi allargati alle attività criminali trascinando con sé anche le rivalità. L’importanza delle terre è dimostrato in modo cristallino da un fatto di cronaca che Iannucci ricorda: è il duplice omicidio di Vincenzo Fania e Angelo Fania, padre e figlio uccisi il 13 ottobre 1999 a San Nicandro Garganico, nella loro masseria. La struttura aveva dei terreni che, dalle sponde con l’Adriatico, arrivavano fino alla superstrada. Quei possedimenti facevano gola alla famiglia Ciavarella, legata al clan Li Bergolis della mafia garganica: lì poteva aprirsi un corridoio per il passaggio di merce illecita, in particolare delle sigarette di contrabbando. I Fania, però, non volevano lasciare le loro terre ai trafficanti e Gennaro Giovanditto, vicino ai Li Bergolis, li ha fatti fuori. “Certe storie, qui a Foggia, ricordano alcuni film sul Far West in cui c’è qualcuno che si oppone al prepotente”, dice. Un altro caso, senza spargimenti di sangue, è avvenuto a Monte Sant’Angelo, nel cuore del Parco nazionale del Gargano, dove un imprenditore agricolo è riuscito a opporsi al suo vicino, un uomo legato al clan Romito che faceva pascolare il proprio bestiame sui terreni del primo. Per anni l’agricoltore ha dovuto subire provocazioni, minacce e tentativi di estorsione, ma le sue denunce hanno dato il via a un’inchiesta dei carabinieri che a fine giugno ha portato al sequestro di mucche, pecore e capre.
“Quanto avvenuto a Foggia negli ultimissimi anni è esemplare e rispecchia quanto fatto a Palermo dopo le stragi di Cosa nostra. Credo che per me venire qui sia stata una scelta giusta – dichiara Iannucci –. Le mafie foggiane non possono avere la capacità di rigenerarsi di altre mafie perché sono molto territoriali e inoltre, se si dà ai cittadini la possibilità di fidarsi dello Stato, si toglie loro il terreno”. Ora bisogna prevedere quanto accadrà in futuro. Dopo queste prime risposte dello Stato le organizzazioni foggiane si uniranno in una federazione e stringeranno patti per porre fine alla violenza e coltivare meglio i loro affari? “Questo può succedere a Foggia e San Severo. Su Foggia dovranno sopperire all’indebolimento delle gerarchie, però bisogna anche considerare che in città ci sono state sette guerre di mafia e non si può dire che siano finite. Non può invece accadere sul Gargano dove c’è una questione di ‘onore’. L’attentato a Giuseppe Ricucci, fratello del boss Pasquale, avvenuto a Manfredonia il 6 maggio evidenzia che in quell’area non c’è una pace duratura”.
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