21 dicembre 2023
Il tempo guarisce le ferite solo se gli si dà la possibilità di farlo. Il riconoscimento delle violenze reciproche può portare alla pace, a fare i conti con l’accaduto e lasciarselo alle spalle. Più spesso però il ricordo dei drammi passati ne propone di nuovi nel presente, in una catena di sofferenza che non trova fine. "Quando smettono le guerre tutti dicono 'mai più', invece i conflitti si ripetono. La storia purtroppo non insegna". Gabriella Gribaudi ha dedicato gran parte della sua carriera allo studio delle guerre e delle violenze sui civili, prediligendo una visione dal basso degli eventi bellici. Tra i suoi volumi, Napoli in guerra 1940-1943 (Bollati Boringhieri, 2023); La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento (Viella 2020), e Combattenti, sbandati, prigionieri. Esperienze e memorie di reduci della seconda guerra mondiale (Donzelli, 2016). Con lei cerchiamo di capire se lo stato di guerra è una condizione di normalità nella storia umana e quali comportamenti – interessi, errori e rischi – fanno sì che si ripeta continuamente, anche se in modi diversi.
Gribaudi, che cosa non riusciamo a imparare dalla storia?
Tante cose. La prima, che bisognerebbe fare più attenzione alle conseguenze future degli atti che si compiono nel presente. La prima guerra mondiale, ad esempio, scoppia perché si finisce in un vicolo cieco, in un susseguirsi di scelte non lungimiranti, che portano poi a un conflitto disastroso. La seconda, che bisogna subito capire chi sono gli aggressori, perché stanno aggredendo e quali sono le loro intenzioni. Adolf Hitler non fu fermato in tempo, forse invece si poteva farlo. La terza, nessuno impara la complessità: non c’è mai un bianco e un nero nella storia, il bene e il male assoluti, è sempre tutto più difficile. Non esiste mai una sola causa o due cause di ciò che accade, perché ne esistono diverse. Anche le condizioni e le esperienze delle persone sono molte e differenziate, bisogna cercare di capirle. Noi storici ci proviamo, anche se poi la narrazione che si impone sulla scena pubblica è semplificante e non aiuta a capire.
Bisogna subito capire chi sono gli aggressori, perché stanno aggredendo e quali sono le loro intenzioni. Adolf Hitler non fu fermato in tempo, forse invece si poteva farlo
Perché parliamo di guerre al plurale e di pace al singolare?
Esiste un solo tipo di pace? Giusta riflessione. No, esistono e sono esistite paci molto diverse tra loro. Quella che segue la prima guerra mondiale è iniqua, difatti porterà all’ascesa di Hitler e alla seconda guerra. Alla Germania viene inflitta una pace socialmente ed economicamente disastrosa e l’Impero austro-ungarico viene frammentato secondo criteri pseudo etnici, da cui nasceranno persecuzioni delle minoranze e nuovi conflitti. Invece la pace dopo la seconda guerra mondiale ha funzionato e può essere considerata, per certi versi, un buon esempio. I vincitori non inflissero condizioni terribili ai paesi perdenti, Italia, Germania e Giappone. Imposero la democrazia e alcune condizioni, è vero, ma con il piano Marshall aiutarono i paesi distrutti e affamati dalla guerra a risollevarsi. Tuttavia, e questo è un aspetto negativo, con quella pace il mondo venne diviso in sfere d’influenza, quella degli Stati uniti e quella dell’Unione Sovietica. Non bisogna mai dimenticare che ai paesi finiti nella seconda sfera di influenza sovietica vennero imposti con la violenza i regimi comunisti. Circostanza che si sconta ancora adesso nei paesi dell’Europa orientale.
Quindi le popolazioni possono soffrire sia nelle guerre che nei processi di pace?
Esatto, gli effetti della pace sulle popolazioni non sono sempre positivi. In Cecoslovacchia gli esponenti democratici che si opponevano al regime comunista furono uccisi; lo stesso avvenne in Ungheria, dove la rivolta del 1956 fu repressa nel sangue. L’occidente non fece nulla perché, con la guerra fredda, se uno dei due Stati fosse intervenuto nella sfera d’influenza dell’altro avrebbe provocato un nuovo scoppio del conflitto.
Per favorire la pacificazione a volte è necessario rimuovere il ricordo delle violenze vissute?
È molto difficile da dire. Di certo, il ricordo della violenza ripropone altre violenze. Un caso molto significativo è stato quello della ex Jugoslavia, dove la disgregazione del Paese e le guerre sanguinosissime fra Croazia, Serbia, Bosnia, e dentro la Bosnia stessa, hanno riproposto le atrocità della seconda guerra mondiale. Il ricordo delle violenze consumate tra oppositori e sostenitori della Germania, e verso la popolazione civile, è riemerso nei nuovi conflitti esacerbandoli e moltiplicandoli. È avvenuto lo stesso in Italia, sul confine orientale. Per molti anni odi e violenze ereditati dalla seconda guerra mondiale hanno impedito sia la riconciliazione sia una vita sociale pacificata. In questi casi, più che rimuovere, è utile elaborare l’accaduto per tentare di passare oltre. Un atto simbolico importante è stato compiuto nel 2020 con l’incontro tra il presidente Sergio Mattarella e il presidente sloveno Borut Pahor, che hanno visitato insieme i luoghi in cui sono avvenuti i massacri prima dei fascisti, poi dei seguaci di Tito. Solo il riconoscimento delle violenze reciproche può portare a una pace.
Un atto simbolico importante è stato compiuto nel 2020 da Sergio Mattarella e dal presidente sloveno Borut Pahor, che hanno visitato insieme i luoghi in cui sono avvenuti i massacri prima dei fascisti, poi dei seguaci di Tito
La nostra memoria della seconda guerra mondiale è fedele alla realtà storica?
No, ancora adesso le persone tendono a dimenticare che dal 1940 al 1943 abbiamo fatto la guerra fascista come alleati dei nazisti, abbiamo compiuto violenze e crimini di guerra nei luoghi che abbiamo occupato, come la Grecia, dove abbiamo affamato la popolazione. Siamo stati autori di rappresaglie, sia in Grecia che in ex Jugoslavia. Tendiamo a rimuovere anche l’esistenza della Repubblica di Salò, di fatto un regime collaborazionista che ha usato violenza contro i suoi stessi cittadini. La chiamata alle armi del comandante Rodolfo Graziani, ministro della Difesa di Salò, recitava che chi non si fosse presentato, sarebbe stato condannato a morte come disertore. Come è avvenuto: molti giovani furono uccisi. Per non andare a combattere nelle file della Repubblica di Salò molti si arruolarono nelle schiere dei partigiani. Ciò che resta incredibile è che a Graziani, lo stesso che usò le armi chimiche in Etiopia e ordinò il massacro dei monaci etiopi per rappresaglia, il paese in cui è sepolto, Affile, in provincia di Frosinone, ha dedicato un mausoleo celebrativo. La circostanza la dice lunga sulla memoria monca degli italiani.
Questa memoria monca forse condiziona la nostra capacità di comprendere gli scenari di guerra attuali.
Penso che sugli scenari di guerra attuali prevalga l’ideologia, che in Italia è sempre stata molto forte. Tra i giovani è particolarmente evidente, come per il caso di Israele e Palestina, ma anche di Russia e Ucraina. Sono aspetti ideologici che non aiutano a comprendere la realtà.
Probabilmente non aiutano neppure i processi di pacificazione.
Certo.
Qual è il peso storico delle pratiche civile e sociali di nonviolenza?
Esistono molti esempi di resistenza e di resilienza della popolazione civile, dagli scioperi ai sabotaggi, fino all’aiuto alle minoranze perseguitate, che hanno salvato la vita a decine e centinaia di persone. La storia racconta di chi ha fatto delazioni, ma anche di chi ha nascosto e protetto vite umane, pur correndo il rischio di essere rastrellato e portato nei campi di sterminio. Sono tutti casi di resistenza civile e di resistenza alla guerra.
Nella guerra tra il governo Netanyahu e Hamas le parti non sembrano volere la fine del conflitto. I popoli forse sì, ma non hanno voce
Chi decide realmente la pace?
Prevalentemente le élite, che possono anche imporre paci inique o, più semplicemente, non volere la fine del conflitto. Nel caso della guerra tra il governo di Benjamin Netanyahu e Hamas, le parti in campo non sembrano certo perseguire la pace. Le popolazioni probabilmente la vorrebbero, ma non hanno la possibilità di affermare o anche solo fare emergere le loro volontà. Il caso di Russia e Ucraina è diverso, perché la guerra è iniziata con l’aggressione, nel 2014, della Russia sulla Crimea e il mondo è rimasto a guardare. Un caso molto simile a quello dell’occupazione di Hitler della regione dei Sudeti in Cecoslovacchia, che non fu fermata. Gli ucraini si sono difesi e continuano a difendersi, ma è difficile immaginare che, se si fossero arresi senza combattere, si sarebbe potuto giungere a una pace non ingiusta, viste le mire territoriali e l’ideologia di Putin.
Lei si considera pacifista?
Nei termini in cui lo si intende adesso, no. Penso al caso dell’Ucraina: quando avviene un’aggressione, come nella seconda guerra mondiale, ci si difende dell’aggressore, non si può fare diversamente. Gli ucraini hanno dovuto combattere, in quel caso non si può essere pacifisti. È importante costruire strade che portino alla pace, anche quando è in corso un conflitto, ma quando c’è uno sbilanciamento molto forte tra le parti è davvero difficile
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