Nessuna pace senza disarmo

Nel 2022 le spese militari hanno toccato un nuovo record: il rischio atomico non è mai stato così alto dalla Guerra fredda, mentre molti accordi per limitare, diminuire e controllare le armi sono sfumati

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

21 dicembre 2023

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È il 9 gennaio 2023, gli ambasciatori di molti paesi del mondo sono riuniti nella Santa sede per il tradizionale scambio di auguri di inizio anno, quando Papa Francesco pronuncia un discorso destinato a fare la storia: "Tutti i conflitti – dice – pongono in rilievo le conseguenze letali di un continuo ricorso alla produzione di nuovi e sempre più sofisticati armamenti, talvolta giustificata adducendo il motivo che se una pace oggi è possibile, non può essere che la pace fondata sull’equilibrio delle forze. Occorre scardinare tale logica e procedere sulla via di un disarmo integrale, poiché nessuna pace è possibile laddove dialogano strumenti di morte". Il pensiero del pontefice non è isolato. Lo stesso segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres, dopo aver lanciato la propria agenda per il disarmo e la non proliferazione nel 2018, ne ha più volte ribadito la "cruciale importanza" per la pace e il futuro dell’umanità. "Esorto i leader a prendere provvedimenti per rafforzare il regime globale di disarmo e non proliferazione e a sostenere una nuova agenda per la pace con una versione rinnovata per il disarmo", ha chiesto il 5 marzo 2023.

Il nucleare è l’unica arma di distruzione di massa non ancora vietata. Ad oggi nel mondo si contano circa 12500 testate. L’Italia ospita gli arsenali alleati

Appelli che sono rimasti inascoltati, mentre le spese militari hanno toccato un nuovo record, il rischio nucleare non è mai stato così alto dalla Guerra fredda e molti accordi per il controllo degli armamenti sono caduti in disgrazia. Ultimo, il Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa, considerato un pilastro della stabilità europea. Firmato a Parigi nel 1990, l’accordo stabiliva un sostanziale equilibrio degli armamenti che i paesi Nato e quelli parte dell’ex patto di Varsavia – che fino al 1991 ha unito l’allora Unione Sovietica e le democrazie popolari dell’Europa dell’est – possono schierare sul suolo europeo. Il 7 novembre scorso la Russia ha fatto sapere di aver completato le procedure per il ritiro dal trattato. Subito dopo, gli Stati dell’Alleanza atlantica aderenti ne hanno annunciato la sospensione.

Conferenza Stati contro armi nucleari, Italia assente

Dal disarmo al riarmo

Non è sempre stato così. C’è stata una fase in cui il disarmo, qui inteso come l’adozione di misure per la riduzione o la completa abolizione delle armi, ha avuto un ruolo di primo piano nella diplomazia internazionale, così come il loro controllo e la loro non proliferazione. "Armi e mezzi di guerra, soprattutto se particolarmente crudeli, hanno sempre creato una certa avversione e la comunità internazionale, storicamente, ha tentato di contrastarne l’uso, promuovendone spesso l’abolizione", spiega a lavialiberaFederica Dall’Arche, ricercatrice del Centro per il disarmo e la non proliferazione di Vienna, organizzazione internazionale non governativa che promuove la pace e la sicurezza. "Nella storia moderna il primo importante tentativo in questa direzione risale al 1675, quando Francia e Sacro romano impero bandirono i proiettili avvelenati. Dopo la seconda guerra mondiale gli sforzi sono aumentati, ma il vero grande slancio verso trattati e risultati di disarmo umanitario, cioè che presta particolare attenzione a minimizzare la sofferenza umana e la contaminazione ambientale, c’è stato post-Guerra fredda".

Guerra in Ucraina, dove finiscono le armi?

James Revill, a capo dei programmi che si occupano di spazio e armi di distruzione di massa dell’Unidir, un’agenzia indipendente delle Nazioni unite che supervisiona e promuove il disarmo, sottolinea che i risultati raggiunti sono stati importanti. "Grazie alle misure implementate a partire dagli anni Novanta abbiamo quasi proibito del tutto lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio e l’uso di armi sia chimiche che biologiche". Nel 21esimo secolo, però, la macchina diplomatica dietro questi successi si è arenata. Basti pensare – ricorda Revill – alla Conferenza del disarmo, uno dei più importanti fori multilaterali che la comunità internazionale ha a disposizione per i negoziati in materia di disarmo e non proliferazione, istituita nel 1979 dopo la prima Sessione speciale sul disarmo dell’assemblea generale dell’Onu. La Conferenza e gli organi che l’hanno preceduta sono stati la sede dei più importanti accordi di disarmo conclusi dalla comunità internazionale dal secondo dopoguerra. Ma, salve poche eccezioni, da 20 anni gli Stati membri non riescono ad accordarsi su un programma di lavoro, lasciando il foro in una sostanziale impasse. Un nodo lo evidenzia Iain Overton, direttore esecutivo dell’Action on armed violence, un ente di beneficenza con sede a Londra che conduce ricerche sull’incidenza e l’impatto della violenza armata globale: "Gli stessi membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ovvero Cina, Russia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia, sono tra i maggiori esportatori di armi del mondo".

La corsa al riarmo – di contro – procede a ritmi serrati dal 2001, anno dell’attentato terroristico alle Torri gemelle di New York. Secondo i dati dello Stockholm international peace research institute, nel 2022 le spese militari globali sono cresciute per l’ottavo anno consecutivo raggiungendo un nuovo picco storico: 2240 miliardi di dollari. I costi sostenuti da Stati Uniti, Cina e Russia rappresentano il 56 per cento del totale, ma è l’Europa a guidare il trend. Un rapporto commissionato da Greenpeace Italia, Germania e Spagna ha stimato che negli ultimi dieci anni il budget destinato alle armi dei paesi Nato dell’Unione europea è raddoppiato, passando dai 145 miliardi di euro nel 2014 a una previsione di bilancio di 215 miliardi nel 2023. L’Italia è balzata dai 2,5 miliardi del 2013 ai 5,9 miliardi del 2023. Non va meglio se si analizzano le sole spese per gli arsenali nucleari dei nove Stati dotati dell’atomica: Stati Uniti, Russia, Cina, Israele, Regno Unito, Francia, Pakistan, India e Corea del Nord. Per l’International campaign to abolish nuclear weapons (Ican), coalizione della società civile per l’abolizione delle armi nucleari, nel 2022 questi paesi hanno destinato ai loro arsenali 82,9 miliardi di dollari, 2,5 in più rispetto al 2021.

La normalizzazione del nucleare

La storia del disarmo nucleare, unica arma di distruzione di massa non ancora proibita, è significativa per capire il cambio di passo. Nella sua prima, storica, risoluzione l’Assemblea generale dell’Onu ha identificato nel disarmo nucleare un obiettivo primario. Il Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari, sottoscritto nel 1968, ne ha limitato la diffusione. Ma non ha contribuito alla riduzione degli arsenali degli Stati già dotati della tecnologia. Questo compito è stato portato avanti da accordi bilaterali e multilaterali promossi dai leader delle due superpotenze atomiche, Stati Uniti e Russia, a partire dagli anni Settanta. Ma nel 2002 il ritiro unilaterale di George W. Bush dal trattato anti-missili balistici ha dato il via a dei progressivi dietro-front.

Nel 2019, sempre gli Stati Uniti hanno detto addio all’accordo che nel 1987 aveva decretato la fine dei cosiddetti euromissili, cioè i missili nucleari a raggio intermedio installati da Usa ed ex Urss in Europa. Mentre nel 2023 la Russia ha sospeso la sua partecipazione al New Start, unico patto di disarmo nucleare che impegnava Mosca e Washington ancora vigente. Inoltre, entrambe le superpotenze, al pari degli altri Stati nucleari, ostacolano il Trattato di proibizione delle armi nucleari (Tpnw) entrato in vigore nel 2021, dopo la ratifica di 50 paesi, il primo a dichiarare l’atomica illegale. A oggi si contano ancora circa 12.500 testate. "I nove Paesi nucleari continuano a investire nel settore, modernizzando i loro arsenali e sviluppando nuove tecnologie", commenta Daniel Högsta, vicedirettore dell’Ican, aggiungendo che coinvolgono nel sistema anche i loro alleati, come l’Italia, il Belgio e la Germania: "Tutti Stati che ospitano gli arsenali, rendendosi complici del problema".

"Con la fine della Guerra fredda – prosegue Högsta –, si è diffusa la convinzione che le armi nucleari non siano più un rischio. Anzi, molti governi hanno promosso l’idea che possano essere sfruttate per ragioni di sicurezza nazionale. Una normalizzazione che passa anche dal linguaggio. È la ragione per cui sentiamo parlare di deterrente nucleare e non di armi nucleari". Un esempio: a inizio dicembre, in un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit, Joschka Fisher – storica voce dei Verdi tedeschi, partito fondato proprio in nome della resistenza al riarmo nucleare – ha sostenuto che per contenere la Russia di Putin, l’Europa deve potenziare i propri arsenali atomici. "Dobbiamo ripristinare la nostra capacità di deterrenza", ha detto. Per il vicedirettore dell’Ican la logica della deterrenza "non solo è folle ma non ha funzionato, alimentando sfiducia e instabilità tra gli Stati. L’invasione russa dell’Ucraina dimostra in modo chiaro che le armi nucleari possono essere usate in modo aggressivo. Il Cremlino ha minacciato di ricorrervi se altri paesi fossero intervenuti nel conflitto. Un ricatto inaccettabile e preoccupante".

Disobbedienza nonviolenta 

L’esempio del Costa Rica

"La sicurezza mondiale basata sulla paura e sulla minaccia della distruzione non è sostenibile". A parlare è Laura Chinchilla Miranda, docente dell’Università di San Paolo (Brasile), analista politica, nonché ex ministro della pubblica sicurezza ed ex presidente del Costa Rica. Il paese latinoamericano ha svolto un ruolo fondamentale in diversi trattati di disarmo e controllo degli armamenti facendo leva sulla sua storia. Lo Stato ha rinunciato alle proprie forze armate nel 1949, dimostrando che un’altra via alla sicurezza è possibile. "Da allora siamo diventati lo Stato più pacifico, e politicamente più stabile, dell’America Latina – racconta –. Viceversa, in altri paesi, come il Venezuela, gli eserciti sono stati un importante fattore destabilizzante, contribuendo al potere di sanguinose dittature". Fare a meno della zavorra economica delle forze armate ha anche consentito di istituire un sistema sanitario pubblico e di destinare il 6 per cento del prodotto interno lordo all’educazione.

L’ex presidente del Costa Rica: “La sicurezza mondiale basata sulla paura e sulla minaccia della distruzione non è sostenibile”

Certo, il Costa Rica è uno Stato piccolo, non ha combattuto per l’indipendenza né ha mai avuto una tradizione militare, quindi Miranda è cauta nel considerare il modello replicabile. Il rapporto di Greenpeace però sottolinea come, anche in Europa, disinvestire in armi permetterebbe di restituire risorse ad altri settori, come istruzione, sanità e ambiente, che in termini di crescita economica e di occupazione renderebbero di più. Non solo. La scelta della militarizzazione non si giustifica nemmeno sulla base delle esigenze di sicurezza dell’Europa che "sarebbe meglio garantita da accordi politici e diplomatici, iniziative di prevenzione e risoluzione dei conflitti, controllo degli armamenti e processi di disarmo", suggerisce il report, concludendo che, al contrario, questa strategia potrebbe "stabilizzare ulteriormente l’ordine internazionale".

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