21 dicembre 2023
"Più che ministero della Difesa, dovremmo chiamarlo dicastero della Guerra, perché quello sta facendo: potenzia l’industria bellica, la vendita e il commercio delle armi. Quando scoppia un conflitto armato, si chiede ai pacifisti cosa abbiano fatto per impedirlo. Ma ormai è troppo tardi: la pace si costruisce prima ed è un compito che spetta alla politica, riguarda tutti e non può essere delegato a qualche migliaia di cittadini". Rocco Altieri ha insegnato all’Università di Pisa e ora dirige la casa editrice Edizioni Gandhi. Restituisce un’immagine complessa di un movimento che conta 70 associazioni in tutta Italia, riunite sotto l’ombrello della Rete pace e disarmo, nata nel 2020 per promuovere le relazioni tra le parti in conflitto e il raggiungimento di una soluzione condivisa.
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Sia nel nostro Paese che all’estero queste organizzazioni potrebbero essere una voce importante nel dibattito sulle guerre nel mondo, ma in una società abituata alla velocità degli slogan il loro messaggio fatica a passare. Fatica che ha determinato una riflessione interna agli stessi gruppi. Padre Alessandro Zanotelli ha sottolineato questa difficoltà durante la marcia della pace Perugia-Assisi di inizio dicembre, riflettendo sull’incisività del discorso nonviolento. Non basta definirsi costruttori di pace, bisogna esporsi: la disobbedienza civile può essere il metodo migliore per arrivare a tanti.
"Pensare che movimenti e associazioni siano un’unica coalizione senza differenze è ingenuo. Le storie e le idee da cui hanno tratto ispirazione per le loro azioni sono diverse", spiega a lavialibera Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete pace e disarmo. "Quella della nonviolenza è una proposta politica, che struttura una società in maniera accogliente e inclusiva, lottando contro le disuguaglianze e le povertà, per un ambiente sano". Per questo la scelta è stata chiara: rimanere con una propria identità, ma aiutarsi all’interno della rete per restare aggiornati sui cambiamenti legislativi e sulle attività che potrebbero avere una ricaduta per le singole associazioni. "Alle volte si tratta di spostamenti di bilancio per finanziare gli armamenti, altre di clausole che negano alcune possibilità per chi lavora nel nostro settore. Insieme, stiamo attenti a ciò che accade, per aiutarci a formulare una risposta adeguata".
A occuparsi di nonviolenza ci sono gruppi che svolgono attività di studio storico, come il Centro studi Sereno Regis. "La sfida più grande – incalza Angela Dogliotti, vice presidente – è mettere in discussione il paradigma che la guerra sia la risposta alle dispute a tutti i livelli, da quello internazionale alle questioni di vicinato. La violenza non li risolve, li moltiplica". Secondo Dogliotti, per prendere coscienza di questo serve fare un passo indietro storico e tornare alla fine della Seconda guerra mondiale, quando le potenze vincitrici crearono un sistema da loro stesse organizzato, le Nazioni Unite. "Oggi non funziona più e sarebbe da riformare perchè non è in grado di affrontare efficacemente i conflitti attuali".
L’invasione russa dell’Ucraina e l’attacco di Hamas a cui sono seguiti i bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza hanno destabilizzato il già precario equilibrio internazionale. Come conseguenza collaterale dello scoppio del conflitto, da più parti sono arrivate le accuse che la volontà di una risposta pacifista fosse sintomo di vigliaccheria, un immobilismo dovuto alla codardia che istillasse il pensiero che lo scontro si risolvesse da solo.
La sfida è mettere in discussione la convinzione che la guerra sia l’unica soluzione
"Troppe volte il pacifismo è stato confuso con il pensare 'voglio stare in pace' – commenta Mao Valpiana, presidente del Movimento nonviolento –. Sembra che il nostro impegno sia solo teorico e astratto, ma in realtà la nonviolenza è molto concreta. È un modo di agire basato sulla cooperazione e non sulla competizione e rifiuta l’esaltazione della brutalità e della legge del più forte". A questa insinuazione si contrappone l’azione dei movimenti. "Dopo un mese, eravamo già a Kiev con una carovana per portare aiuti concreti come cibo e vestiti – sottolinea Vignarca – e questo è stato possibile solo perché eravamo una realtà già consolidata". All’assistenza materiale ai civili si aggiunge quella finanziaria per chi decide di disertare il campo di battaglia. "Gli obiettori di coscienza – continua Valpiana – vengono denunciati, processati e incarcerati su entrambi i fronti. Noi aiutiamo con le spese legali e attraverso un fondo che abbiamo creato paghiamo gli avvocati che li difendono in tribunale".
A Gaza, invece, molte associazioni nonviolente operano già da molti anni, come racconta Farshid Nourai, coordinatore dell’Associazione per la pace. Spiega che nella Striscia, dove sono impegnati nei campi profughi, "si assiste a una guerra quotidiana per la sopravvivenza". E anche dopo gli ultimi attacchi, gli obiettivi principali continuano a essere tre. Il primo consiste nel proteggere le persone, chiedendo il cessate il fuoco immediato e facilitando le iniziative umanitarie. Il secondo è disarmare, che significa comprendere ciò che sta accadendo e problematizzarlo, cioè entrare nella complessità delle situazioni di conflitto armato ed evitare l’invio di materiale bellico. Infine, negoziare per produrre le condizioni per arrivare a un tavolo dove le parti vengano ascoltate e prese in considerazione. Nella trasformazione del conflitto non si impone la pace, semmai si crea. Ne è convinta anche la comunità di Sant’Egidio, secondo cui "la guerra è un male, non un destino ineluttabile della storia dell’umanità".
Pacifismo non significa “voglio stare in pace”. È l’insieme di teoria e azione
Nel nostro Paese molto del lavoro è orientato all’insegnamento di un linguaggio diverso. "Proviamo a pensare a tanti termini che utilizziamo nelle frasi quotidiane – riflette Rocco Altieri –. Molti sono aggressivi, belligeranti e sempre più spesso non ce ne accorgiamo. Serve una purificazione anche in questo ambito, che sembra secondario, ma non lo è". A questo proposito, l’educazione è centrale nell’azione nonviolenta. A cominciare dalle scuole, dove si insegnano le pratiche per comprendere come il conflitto sia parte integrante dello stare in comunità: non serve vincere sull’altro, ma provare ad ascoltarlo. "Il fatto di non essere in guerra in maniera formale – prosegue Valpiana – non significa che la narrazione della realtà sia demilitarizzata. Mi spiego: siamo coinvolti nella produzione di armi e investiamo in armamenti, come dimostra Milex, il rapporto annuale sulle spese militari italiane del nostro ministero della Difesa. Il linguaggio bellico diventa pensiero di sopraffazione e si rischia di non riuscire a vedere la cooperazione come una strada da percorrere".
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A questi percorsi nelle scuole se ne aggiungono altri di studio, di ricerca, come quelli degli archivi e di associazioni che si occupano di aiutare chi è in difficoltà. Nourai è convinto che "il grande lavoro è lavorare sui concetti di riconciliazione, di riappacificazione. Processi lunghi, che spesso non vengono intrapresi perché difficili". La complessità è dovuta a più fattori. Il primo riguarda la "dimensione nonviolenta", che può essere un approccio personale oppure una modalità di relazione e di stare in società. La seconda è insita nella storia di ogni associazione e nella provenienza ideologica, dal cattolicesimo al comunismo. Infine, la terza riguarda il conflitto: si genera all’interno delle comunità e ha bisogno di tempo per essere orientato. In una realtà iperconnessa e sovraesposta questo non è sempre facile.
A sottolineare la difficoltà di avere una voce è stato padre Zanotelli, in occasione della marcia Perugia-Assisi dello scorso 10 dicembre, uno degli eventi di maggiore importanza nazionale sul tema, promossa e organizzata per la prima volta nel 1961 da Aldo Capitini. "Oggi fare pace è costoso come fare la guerra, dobbiamo avere il coraggio di capirlo. Serve abituarsi alla disobbedienza civile, anche a costo di andare in prigione, altrimenti siamo destinati alla morte e alla catastrofe".
Padre Zanotelli si riferisce al "metodo" del movimento ambientalista, che ha come obiettivo la creazione di un fondo riparazione per i danni causati dalla crisi climatica. L’ambiente è un tema centrale, una proposta che i gruppi pacifisti devono veicolare. Un esempio è la presa di posizione del Movimento nonviolento sulla Cop28, la conferenza sul clima che si è svolta a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre 2023. "Al padiglione italiano – scrivono nel comunicato – è andato in scena un convegno di Leonardo spa sulle innovazioni tecnologiche per un mondo più verde, dove l’azienda della difesa armata italiana ben si è guardata dal menzionare i problemi dei sistemi d’arma, le emissioni e l’estrazione di risorse per la loro produzione e per l'export militare". E concludono: "Riteniamo inaccettabile che il governo italiano investa nel greenwashing militare proprio nel luogo in cui bisognerebbe essere uniti per contrastare le cause della crisi climatica alla radice".
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