Le guerre peggiorano gli effetti del cambiamento climatico che, a sua volta, è alla base di nuovi conflitti o contribuisce a quelli già in corso. Surriscaldamento e guerre: i collegamenti tra i due fenomeni sono sempre più forti ed evidenti. Le teorie del disarmo climatico mirano a comprendere e decostruire questi legami, compresa l’idea che si possa rispondere alle crisi ambientali con gli eserciti.
La guerra inquina: emissioni e non solo. Un primo esempio sono le emissioni militari, il grande assente dai dibattiti ufficiali della Cop26 di Glasgow, in Scozia, nel 2021 e della più recente che si è svolta in Egitto nel novembre 2022. A Sharm el-Sheikh, il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres ha, infatti, esortato i paesi del Nord del mondo a compensare i finanziamenti per aiutare le nazioni a basso reddito a mitigare e ad adattarsi all’emergenza climatica, ma non ha fatto menzione del contributo delle forze armate mondiali al cambiamento climatico, né le ha incoraggiate a ridurre le emissioni di carbonio.
Si stima che gli eserciti producano ogni anno circa il cinque per cento delle emissioni di CO2 mondiali. L’esercito americano, con quasi 800 basi in 80 Paesi, è il principale inquinatore, dal momento che consuma più energia di qualsiasi altra istituzione al mondo. Se le forze armate del pianeta fossero un paese, avrebbero la quarta più grande impronta ecologica al mondo.
Carenza di informazioni
Il Conflicts and environment observatory – in collaborazione con le università di Lancaster e Durham – ha lanciato il progetto Military emissions gap, che mappa e analizza il divario tra i dati che gli eserciti dovrebbero riportare all’Onu e quelli effettivi dell’inquinamento causato dalle guerre. La Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), infatti, invita gli Stati a riferire le loro emissioni di gas serra ogni anno, ma dal momento che la segnalazione delle emissioni militari non è vincolante, i dati sono spesso assenti o incompleti.
Gli eserciti causano ogni anno circa il 5 per cento delle emissioni di CO2 del mondo. Le forze americane inquinano di più
Per fare un esempio, il Military emission gap ha rilevato che nel 2020 40 Paesi industrializzati hanno speso 1.270 miliardi di dollari in difesa ma che solo cinque hanno segnalato le proprie emissioni, in linea con le direttive dell’Unfccc. Quindici Stati, tra cui Cina, India, Arabia Saudita, Sud Corea, Brasile, Iran e Pakistan hanno speso 510 miliardi ma nessuno ha segnalato dati disaggregati sulle proprie emissioni militari.
A farne le spese è l’ambiente
L’inquinamento causato dalle guerre attive oggi nel mondo (31 i conflitti, 23 le situazioni di crisi, oltre a due macroaree di tensione, secondo l’undicesima edizione dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo) e da tutte quelle che le hanno precedute, è massiccio: le emissioni causate dai conflitti sono infinitamente più di quelle che pensiamo.
Tra le maggiori voci di spesa ambientale c’è lo spostamento di militari, mezzi di trasporto, armi ed equipaggiamento, il loro sostentamento, le emissioni causate dalle esplosioni, dalle armi incendiarie e dalla strategia militare di distruzione dei raccolti per forzare le popolazioni locali alla resa. Un’altra pratica altamente inquinante è quella del gas flaring, l’incendio dei combustibili fossili, attraverso cui gli eserciti si assicurano che le risorse siano inutilizzabili affinché i gruppi nemici non possano beneficiare della loro vendita. A tutto questo si aggiunge il costo ambientale delle missioni umanitarie e quelle legate alla ricostruzione di paesi e territori dilaniati dal conflitto.
Insomma: se la spesa militare continua a essere altissima e redditizia in Occidente (il 3,75 per cento del prodotto interno lordo americano è legato all’acquisto di materiale bellico, per oltre 20mila miliardi di dollari), la spesa ambientale è devastante. Nei report delle Nazioni unite, i governi riescono a cavarsela riportando una piccolissima parte delle proprie emissioni belliche, e nel diritto internazionale non c’è traccia di una loro responsabilità per il costo ambientale di tutte le conseguenze della guerra.
Nel dicembre 2022 gli Stati dell’Assemblea generale delle Nazioni unite hanno adottato 27 principi giuridici (Perac) per migliorare la protezione dell’ambiente durante tutto il ciclo dei conflitti armati. I Perac rappresentano, secondo gli osservatori, un importante passo avanti perché affrontano in modo specifico molte tipologie di danno ambientale: si applicano prima, durante e dopo i conflitti armati e riguardano sia le guerre tra Stati, sia quelle interne. Un segnale positivo che non è però risolutivo: lo stesso preambolo del testo richiama l’attenzione sullo status non vincolante di alcuni obblighi.
Rispondere con la militarizzazione
Una questione collegata è quella della sicurezza climatica: gli eventi meteorologici estremi e l’instabilità ambientale provocati dall’aumento delle emissioni di gas serra causano e causeranno forti ripercussioni anche sui sistemi economici, sociali e ambientali. Per prevenire i dissesti, negli ultimi anni, la spinta che proviene dall’apparato militare e di sicurezza nazionale, in particolare delle nazioni più ricche, si è molto rafforzata.
Per gli osservatori, ritenere la crisi climatica un problema di sicurezza rafforza l’approccio militarizzato al cambiamento climatico
Nel saggio The dangers of militarising the climate crisis del Transnational Institute (Tni), pubblicato nell’ottobre 2021, si elencano gli effetti delle strategie che forniscono una soluzione militare alle conseguenze del cambiamento climatico. Secondo gli osservatori, vari sono i pericoli nell’inquadrare la crisi climatica come un problema di sicurezza. Rafforzare un approccio militarizzato al cambiamento climatico distoglierà l’attenzione dalle vere cause, bloccando il necessario cambiamento, rafforzerà un apparato militare che è già in forte espansione, scaricherà la responsabilità della crisi climatica sulle vittime e sugli attivisti per il clima e rafforzerà gli interessi aziendali.
Confini blindati
Altra partita è quella legata alle migrazioni. La decisione di concentrarsi sulle soluzioni militari ha portato a un massiccio aumento dei finanziamenti e alla militarizzazione dei confini. La spesa per il controllo delle frontiere negli Stati Uniti è passata da 9,2 a 26 miliardi di dollari tra il 2003 e il 2021. Un altro caso è quello di Frontex – l’agenzia della guardia di frontiera dell’Ue – che ha visto aumentare il suo budget da 5,2 milioni di euro nel 2005 a 460 milioni nel 2020.
In un rapporto di ricerca realizzato prima del vertice di Glasgow, si sottolinea che i paesi più ricchi spendono in media 2,3 volte di più per la militarizzazione delle frontiere che per le misure per il clima. Alcuni investono ancora di più: gli Stati Uniti 11 volte, l’Australia 13. In tutto il mondo si è poi verificata una crescita esponenziale delle frontiere presidiate: da sei muri finalizzati al blocco dei migranti nel 1989, se ne contano oggi quasi 70. A questo si somma poi l’enorme aumento dei finanziamenti per le deportazioni, la sorveglianza e i sistemi biometrici.
Le risposte degli eserciti
Gli eserciti si stanno preparando a garantire la propria operatività in un futuro segnato da condizioni meteorologiche estreme e dall’innalzamento del livello del mare. Secondo il Tni, l’esercito americano ha individuato 1.774 basi soggette a possibili inondazioni. Oltre a cercare di adattare le proprie strutture, gli Stati Uniti e le altre forze militari della Nato hanno voluto mostrare il loro impegno per “rendere più ecologiche” le loro strutture e operazioni.
I paesi più ricchi spendono in media 2,3 volte di più per la militarizzazione delle frontiere che per le misure per il clima
Il governo britannico ha annunciato di fissare al 50 per cento le emissioni da fonti di carburante sostenibili per tutti gli aerei militari e ha impegnato il ministero della Difesa a emissioni nette zero entro il 2050. Secondo i ricercatori del Tni, però, sebbene questi sforzi siano strombazzati come segni che l’esercito stesso si stia rinverdendo, la motivazione più urgente è la vulnerabilità che la dipendenza dai combustibili fossili ha creato al settore militare.
Il trasporto di carburante per mantenere in funzione i suoi Hummer, carri armati, navi e jet è stata, ad esempio, una fonte di grande vulnerabilità durante la campagna in Afghanistan, dal momento che le petroliere che rifornivano le forze statunitensi erano frequentemente attaccate dei talebani. Uno studio dell’esercito americano ha rilevato una vittima ogni 39 convogli di carburante in Iraq e una ogni 24 in Afghanistan. A lungo termine, quindi, l’efficienza energetica rappresenta la prospettiva di un esercito meno vulnerabile. Ma non è così semplice. Già nel 2009, la marina militare Usa aveva annunciato la Great green fleet, una grande flotta verde che inquinasse di meno, ma l’iniziativa si è presto sgretolata, poiché non c’erano le forniture necessarie di agrocarburanti, anche con massicci investimenti per espandere l’industria.
La protezione delle fonti fossili
Nonostante questi spiragli di cambiamento la protezione delle fonti fossili resta uno degli obiettivi principali della difesa, anche per i paesi dell’Alleanza atlantica. Il rapporto Transnational corporations, warmongering and the climate emergency, pubblicato nell’ottobre 2022 dal Delàs Center for Peace Studies, riporta un’analisi dei documenti sulla sicurezza e la difesa del vertice Nato di Madrid 2022, che giustificano come la sicurezza energetica sia un fattore che richiede la difesa militare contro gli “attacchi ibridi”. Già nel 2010, quando la Nato approvò il suo Strategic Concept, nell’elenco delle varie insicurezze che dovrebbero essere motivo di preoccupazione per i paesi membri figurava l’energia, oltre ai cambiamenti climatici.
La menzione di questa tipologia di risorse avvertiva che la crescente scarsità di combustibili fossili li rendeva una risorsa strategica per il comune sistema politico ed economico degli Stati membri, dal momento che, come descrive lo stesso preambolo dell’Organizzazione, la sua missione principale è difendere lo stile di vita collettivo. Riguardo all’Italia, secondo un rapporto di Greenpeace, nonostante gli effetti di gas e petrolio sulla crisi climatica, il Paese destina circa il 70 per cento della sua spesa per le missioni militari in operazioni a tutela delle fonti fossili, per un costo di 870 milioni di euro nel 2022. Inoltre, due missioni nazionali hanno come primo compito la protezione di asset Eni in acque internazionali e circa due terzi delle missioni targate Ue sono collegate alle fonti fossili.
Nuovi conflitti
Secondo quanto analizzato dall’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, il cambiamento climatico genera nuove guerre o peggiora quelle già in corso. Un caso simbolo è quello della regione africana del Sahel, dove le crisi in atto sono aggravate dai cambiamenti climatici. Secondo l’Onu, l’erosione del suolo e il prosciugamento delle fonti d’acqua stanno «contribuendo all’acuta insicurezza alimentare e stanno aggravando le tensioni tra agricoltori e pastori».
L’Italia stanzia il 70 per cento della sua spesa per operazioni a tutela delle fonti fossili, pari a 870 milioni di euro nel 2022
Il Sahel è una delle regioni più colpite da eventi climatici a lenta insorgenza e i disastri ambientali, a partire dalle inondazioni, sono raddoppiati tra il 2015 e il 2021. Il cambiamento climatico porta poi ad aggravare la crisi alimentare, peggiorata a sua volta dal blocco delle esportazioni di grano dall’Ucraina, dovuto all’invasione russa e da una fortissima inflazione. In Mozambico l’aumento delle tempeste tropicali e delle precipitazioni violente ha reso più vulnerabili le persone già colpite dal conflitto, mentre in Yemen alla guerra si sono aggiunte inondazioni e siccità, che hanno distrutto rifugi e infrastrutture, limitato l’accesso ai mercati e ai servizi di base e facilitato la diffusione di malattie