Bangladesh, 2019. Nurun Nahar vive in un luogo remoto di Islampur, Jamalpur. La recente inondazione ha distrutto la sua casa (Mohammad Rakibul Hasan/UN Women - CC BY-NC-ND 2.0)
Bangladesh, 2019. Nurun Nahar vive in un luogo remoto di Islampur, Jamalpur. La recente inondazione ha distrutto la sua casa
(Mohammad Rakibul Hasan/UN Women - CC BY-NC-ND 2.0)

Profughi climatici, zero tutele per chi scappa dagli ecocidi

Un catalogo di calamità naturali provoca la fuga di molti cittadini dal Bangladesh, ma pochi ottengono la protezione internazionale. La giustizia italiana fatica a riconoscere lo status di eco-profughi

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

21 settembre 2022

Per tre anni, per via delle alluvioni in Bangladesh, la famiglia di Uzzul ha perso tutto il raccolto, finendo in miseria. I genitori hanno dovuto vendere la casa e parte dei terreni, finché nel gennaio 2016 Uzzul, nato nel 1998, ha deciso di lasciare il suo paese per raggiungere l’Europa, passando dalla Libia. Anche Hussain ha fatto lo stesso percorso nel 2013: l’allevamento industriale di gamberi stava provocando immensi danni ai campi, a causa della deforestazione per fare spazio alle vasche di acquacoltura e l'aumento della salinità delle acque dolci. I raccolti andavano male. Uzzul e Hussaini, giunti in Italia, hanno chiesto la protezione internazionale, cioè lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, citando tra le ragioni per restare qui e avere libertà di movimento sia la povertà e la fuga dalle violenze sia le conseguenze dei cambiamenti climatici e ambientali. I giudici interpellati gliel'hanno però negata poiché il riconoscimento dello status di “eco-profugo”, come si legge nelle sentenze della Cassazione, è ancora difficile. "Su questo aspetto l’Italia ha un ordinamento più avanzato rispetto a molti altri Stati, anche europei", spiega Chiara Scissa, dottoranda in diritto alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e studiosa di migrazioni ambientali. Il percorso è però complesso.

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Un catalogo delle calamità

Le alluvioni non sono nuove per il Bangladesh, solcato da fiumi come il Gange che sfociano nel golfo del Bengala, ma oggi è uno dei paesi su cui la crisi climatica ha un impatto più forte per lo scioglimento dei ghiacciai sulla catena dell’Himalaya, per l’innalzamento del livello dei mari o per i cicloni frequenti: un catalogo delle calamità naturali più estreme. Entro il 2050, sostiene il Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, il livello del mare dovrebbe salire di 50 centimetri, mettendo a rischio la vita del 28 per cento della popolazione delle coste. Nello stesso anno, secondo il rapporto Groundswell pubblicato dalla Banca mondiale, in Bangladesh ci saranno 19,9 milioni di migranti climatici interni. "Il bangladese medio ha emesso circa 0,56 tonnellate di anidride carbonica nel 2020, rispetto a circa 14,24 tonnellate dello statunitense medio, ma il paese sta subendo il peso maggiore", sottolinea il sito CityLab di Bloomberg

Il Bangladesh, coi suoi 165 milioni di abitanti, è il sesto stato al mondo per numero di cittadini che migrano (dati Un 2020) e conta circa 7,5 milioni di cittadini all’estero. "Il paese asiatico è uno dei paesi con il più alto tasso di emigrazione al mondo, a causa di diversi fattori cronici di carattere socio-economico, ma anche politici, nonché climatici", si legge nel rapporto La comunità bangladese in Italia del ministero del Lavoro. L’Italia è una metà prediletta, la prima in Europa con circa 140mila bangladesi regolari. Quasi il 18 per cento ha ricevuto una forma di protezione internazionale. "Quasi tutti citano il problema delle alluvioni tra le cause della loro partenza", dice l’avvocato Edoardo Montagnani, che ha assistito Uzzul e altri concittadini. "In almeno sette sentenze della Cassazione su ricorsi di cittadini bangladesi ci sono riferimenti a calamità naturali. La causa principale sono le alluvioni, considerata come causa di povertà, vulnerabilità e migrazioni", afferma Scissa.

Però non basta. "Lo status di rifugiato – ricorda la ricercatrice – si ottiene sulla base di cinque motivi", cioè se nel paese di provenienza si rischia di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione o appartenenza a un determinato gruppo sociale. "Se non si rientra in questi casi, ma si rischia comunque un danno grave alla propria vita o alla propria libertà tornando in patria, si può ottenere la protezione sussidiaria", aggiunge. "Spesso nei casi dei bangladesi – riprende l’avvocato – non si tratta di persone perseguitate, ma sono sicuramente esposte a perdere prospettive di vita a causa delle calamità. Prima diventano sfollati interni poi, spesso, la famiglia decide di investire e mandare il figlio più forte in Europa e vivere grazie alle sue rimesse di denaro, dopo aver saldato il costo del viaggio. È una situazione che si lega allo sfruttamento e allo strozzinaggio". E sulla difficoltà di comprimere in caselle burocratiche le situazioni complesse, aggiunge Scissa: "Molti di coloro che partono dal Bangladesh non si considerano migranti ambientali, ma poveri in fuga".

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