21 settembre 2022
È tempo di rivedere i linguaggi, le definizioni e le etichette che mettiamo alle persone provenienti da altri Paesi e di conseguenza i criteri con cui valutiamo le loro richieste di permesso di soggiorno. Cambiano forse le origini della migrazione, ma non può e non deve esserci differenza circa la possibilità di accesso ai diritti, alle risorse, al futuro. Si può essere cittadini di origine straniera, ma si deve sempre e comunque essere cittadini.
A livello verbale, da molti anni assistiamo a una contrapposizione. Da un lato, chi utilizza le definizioni di straniero, clandestino e immigrato in modo strategico per sottolineare la valenza negativa del fenomeno migratorio. Dall’altra, chi è alla ricerca continua di linguaggi più inclusivi e meno stereotipati proponendo ad esempio il termine migrante. Nessuna di queste definizioni, però, può soddisfare né contenere in modo esaustivo la lettura di un fenomeno così complesso e che riguarda così tante persone, con storie spesso simili ma sempre uniche.
Inadeguata è la parola immigrato, che evoca un’azione estremamente invasiva. Persino il termine migrante, che suona meno aggressivo, congela di fatto la vita delle persone a un unico evento
Per esempio, come continuare a usare la parola clandestino – la cui etimologia si riferisce a qualcosa di nascosto – di fronte agli assolati campi di raccolta dei pomodori dove accanto a persone regolari lavorano altre che sono, o sono tornate, irregolari? Si tratta di individui che non si nascondono, ma si muovono alla luce del sole, anche se fanno un’enorme fatica e hanno vite difficili, segnate dalla precarietà indotta da permessi di soggiorno fragili o da mille rivoli normativi che impediscono una regolarizzazione. Inadeguata è anche la parola immigrato, che evoca un’azione estremamente invasiva: qualcuno che arbitrariamente entra e occupa uno spazio. Persino il termine migrante, che alle nostre orecchie suona meno aggressivo e più dolce, congela di fatto la vita delle persone a un unico evento, un fatto, a volte persino avvenuto molti anni fa e a cui sono seguiti anni di permanenza nel nostro Paese, un lavoro, un matrimonio, dei figli. Il limite linguistico, paradossalmente, fotografa la condizioni di individui che si sono da tempo spostati dal loro Paese e che, proprio per le nostre incapacità di accoglienza e inclusione, restano di fatto sempre dei migranti, mai radicati nel nuovo territorio che abitano e in cui si muovono.
Tre ingiustizie contro il Sud del mondo
Quest’estate così segnata dal caldo e dalla siccità – in cui abbiamo toccato con mano quanto il clima stia cambiando in fretta – mi ha fatto riflettere la notizia delle tensioni tra i risicoltori del novarese e quelli della Lomellina costretti a contendersi l’acqua proveniente dai canali irrigui. Mi ha colpito soprattutto il linguaggio usato dai media che hanno descritto la vicenda come una lotta, una guerra, o un conflitto tra due fazioni contrapposte appartenenti a regioni diverse, dipendenti da un unico bene, l’acqua: un bene comune che ora non è più così disponibile. Chissà quanti risicoltori del Nord Italia dovranno in un futuro ormai prossimo reinventarsi un lavoro, una nuova attività o anche cercare altri luoghi in cui abitare.
Mi sono tornate in mente molte storie ascoltate in questi anni: persone che hanno lasciato i loro Paesi e hanno raccontato di raccolti persi per la siccità, di villaggi in guerra tra loro per gli approvvigionamenti di acqua o di beni fondamentali come il riso. Ho pensato a quanti, ascoltati dalle Commissioni territoriali per ottenere il riconoscimento della protezione internazionale, hanno raccontato queste storie a interlocutori distratti che li hanno poi frettolosamente etichettati come migranti economici, di conseguenza non meritevoli di nessuna possibilità di regolarizzazione se non attraverso i canali previsti dai decreti flussi, sempre più rari e complessi. Ma la migrazione è spesso conseguenza di cambiamenti geopolitici importanti e di cambiamenti climatici che hanno effetti devastanti sull’ecosistema e sull’agricoltura di un territorio, e quindi sulle vite concrete delle persone che quei territori abitano, di cui si dovrà sempre più tener conto in un’ottica globale. La crisi climatica andrebbe ripensata considerando le sue conseguenze sulle popolazioni degli Stati più poveri e le responsabilità di chi continua a prelevare in modo sconsiderato le risorse, innescando ricadute disastrose e processi di migrazione di massa. Bisogna assumerne consapevolezza e allargare i criteri per il rilascio di permessi di soggiorno basati sui motivi ambientali, legandoli non solo a calamità naturali.
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti
Record di presenze negli istituti penali e di provvedimenti di pubblica sicurezza: i dati inediti raccolti da lavialibera mostrano un'impennata nelle misure punitive nei confronti dei minori. "Una retromarcia decisa e spericolata", denuncia Luigi Ciotti
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti