21 settembre 2022
Fuggire da fame o povertà non è un diritto. I migranti economici non vengono riconosciuti dalle norme internazionali e ancor meno sono accettati dall’opinione pubblica. Contro il loro arrivo si scaglia, soprattutto in periodo pre elettorale, la propaganda di destra. "Falsi profughi", li ha definiti l’europarlamentare leghista Susanna Ceccardi, intervistata da Sky Tg24 lo scorso marzo, sostenendo la necessità di maggiori controlli alle frontiere ucraine per evitare che il Paese sotto attacco russo "diventi un viatico per tutti quelli che scappano dall’Africa".
Veri e finti profughi: è solo propaganda
L’idea che "non possiamo accoglierli tutti" è stata fatta propria anche dal Partito democratico a guida renziana. "Non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro", era il testo di un post firmato da Matteo Renzi e pubblicato sulla pagina Facebook ufficiale del Pd nel 2017. Una conclusione che ignora la complessità delle cause migratorie, nasconde una visione del mondo razzista e una grande ipocrisia: senza immigrazione economica, il nostro sistema produttivo collasserebbe.
“L’errore è voler ingabbiare le cause delle migrazioni in categorie giuridiche pensate oltre 50 anni fa, ormai inadeguate”
"Dietro una partenza, ci sono sempre mille motivi". Quando parla, Elaf (nome di fantasia, ndr) fissa le sue mani delicate, dalle dita sottili. Ha 26 anni ed è arrivato in Italia lo scorso gennaio dopo un viaggio durato 5 mesi: prima di raggiungere Torino ha fatto tappa in Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia e Slovenia. A ogni meta ha pagato un trafficante, per una spesa totale di circa settemila euro. La sua testimonianza dà molti spunti. Racconta di essere nato nel Bajaur, un distretto del Pakistan al confine con l’Afghanistan dove nei primi anni duemila gli scontri tra le forze di sicurezza governative e i talebani hanno causato l’esodo di 27mila famiglie nei territori vicini.
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Oggi le autorità non considerano più il distretto un fronte, ma chi è rimasto o è tornato a viverci, deve fare i conti con un alto tasso di disoccupazione e con i talebani che – dice Elaf – "continuano a essere presenti nella zona e a imporre il pizzo a tutti i commercianti, settimana dopo settimana. Chi non paga, viene prima minacciato e poi ucciso". Anche suo papà, proprietario di un negozio di vestiti, è stato costretto a pagare finché nel 2017 ha perso la vita in uno scontro a fuoco tra polizia e talebani. Dopo la sua morte, per Elaf, la madre e la sorella sopravvivere è diventato difficile. La situazione è peggiorata con il ritorno al potere dei fondamentalisti islamici in Afghanistan, nell’agosto del 2021. Partire in cerca di fortuna è sembrata all’unico uomo di casa la scelta più sensata.
Per il segretario generale Onu, la guerra in Ucraina “sta potenziando una crisi tridimensionale con devastanti impatti su persone, Paesi ed economie più vulnerabili”
In Italia, Elaf ha presentato domanda d’asilo: è ancora in attesa di risposta e non è detto che la sua richiesta venga accettata. Nel 2021, la maggior parte dei richiedenti asilo nel nostro Paese aveva nazionalità pachistana: il 70 per cento ha ricevuto un diniego. "La difficoltà è far capire alla Commissione territoriale, cui spetta il compito di stabilire se il migrante ha diritto o meno all’asilo, o a qualche altra forma di protezione, che la motivazione economica è solo una delle tante che porta alla partenza", fa sapere lo staff di Liberitutti, cooperativa di Torino che accoglie le persone in attesa di protezione internazionale, aggiungendo: "Di solito questi migranti arrivano da Stati molto poveri in cui sono negati servizi fondamentali e diritti umani che spesso tanti di loro ignorano persino di avere". "L’errore è voler ingabbiare le ragioni che spingono le persone a lasciare il proprio Paese in categorie giuridiche pensate oltre 50 anni fa, ormai inadeguate – riflette Nazzarena Zorzella, avvocata esperta in diritto dell’immigrazione e dell’asilo –. Centinaia di studi condotti sul campo hanno raccolto le testimonianze dei migranti mostrando che ormai le cause non possono essere individuate in maniera netta e da tempo le distinzioni sono solo politiche e istituzionali".
Lo suggerisce la storia di Elaf e lo confermano i dati dell’ultimo rapporto redatto dall’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). Il dossier documenta che "il numero di persone che deve far fronte a una grave insicurezza alimentare e ha urgente bisogno di cibo salvavita continua a crescere in maniera esponenziale". L’anno scorso, 193 milioni di individui in 53 Paesi hanno fatto fatica a sfamarsi: 40 milioni in più rispetto alla quota da record toccata nel 2020. Per la Fao le ragioni vanno individuate in "fattori multipli e integrati, che spesso si rinforzano a vicenda". Tra loro, al primo posto troviamo i conflitti, i cui effetti si ripercuotono su intere aree determinando instabilità politica e insicurezza. Al secondo, gli shock economici, come lo stop delle catene mondiali di approvvigionamento causato dal Covid-19. E al terzo gli eventi climatici estremi, che presto saranno "la nuova normalità".
Grazie agli stranieri, nel 2019 la nostra economia ha guadagnato 29 miliardi di euro, spendendone 25 per la loro gestione: un saldo positivo di quattro miliardi
Il confine tra "falsi" e "veri" profughi è destinato a essere ancor più assottigliato dalla guerra in Ucraina che – sostiene Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni unite – "sta iper potenziando una crisi tridimensionale – alimentare, energetica e finanziaria – con devastanti impatti sulle persone, i Paesi e le economie più vulnerabili". Sempre l’organizzazione Onu stima che il conflitto in corso avrà importanti ripercussioni sulla sicurezza alimentare a livello sia regionale sia globale. Avranno un peso l’evacuazione di milioni di cittadini ucraini, l’aumento dei prezzi conseguente al caro carburanti e alla speculazione, ma anche la diffusa distruzione delle infrastrutture e dei mezzi di produzione, così come la dipendenza di molti Stati di Africa e Medio-Oriente dall’importazione di cereali e fertilizzanti prodotti in Ucraina e Russia. I primi effetti li abbiamo già visti nei mesi scorsi in Tunisia. A causa di decennali politiche agricole orientate all’export, oggi Tunisi è costretta a importare oltre il 70 per cento del proprio grano. Prima dell’invasione russa, il principale fornitore era Kiev.
La guerra ha inceppato il meccanismo di import-export nel Mediterraneo, esacerbando la già pesante crisi economica e politica che va avanti nel Paese da tempo. Secondo le ultime statistiche del ministero dell’Interno, il più dei migranti sbarcati sulle coste italiane da inizio 2022 allo scorso agosto proviene dalla Tunisia. Un dato che conferma la tendenza iniziata nel 2020 e adesso trova nuova linfa nella carenza di cereali.
In questo contesto "dobbiamo sfuggire al tranello delle etichette", spiega Maurizio Veglio, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Da qui la necessità di modificare le leggi che stabiliscono le forme di protezione internazionale, rendendole "più flessibili e adatte all’epoca moderna, alla parcellizzazione dei conflitti, e alla globalizzazione". "La tutela va estesa in modo da abbracciare il più ampio ventaglio di situazioni possibili, senza prevedere un idealtipo di migrante come, per esempio, il migrante climatico". Non è semplice dal punto di vista giuridico – ammette Veglio –, ma a suo avviso il nodo ha un’altra matrice, di natura "politica".
Non prevedere una protezione per chi è costretto a fuggire dalla fame non fa altro che portare alle estreme conseguenze la "scelta di negare a una parte di mondo un’ambizione che appartiene a tutti gli esseri umani: migliorare le proprie condizioni di vita". In teoria il diritto alla mobilità trova espressione nell’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani che recita: "Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio". Ma – prosegue Veglio – "non stabilendo che il migrante possa scegliere la destinazione, il diritto è rimasto monco. La Dichiarazione lascia agli Stati l’autorità di decidere, a seconda dei momenti storici, chi far entrare sul proprio territorio e chi no, chi è meritevole di tutela e chi no. E le ultime decadi sono state caratterizzate da politiche migratorie sempre più restrittive".
In Italia, la legge Bossi-Fini del 2002 ha di fatto reso impossibile per uno straniero entrare o rimanere legalmente in Italia in cerca di un impiego. "Fatta eccezione per il lavoro stagionale, la disciplina della migrazione economica è affidata ai decreti flussi che dovrebbero essere emanati ogni anno per stabilire quanti stranieri possono essere impiegati nel nostro Paese e in quali settori – spiega Ginevra Demaio, ricercatrice del Centro studi e ricerche Idos –. I numeri sono esigui e i criteri molto stringenti: l’accesso è riservato solo a chi riesce a ottenere un contratto quando si trova ancora nel proprio Stato e sono pochi i datori di lavoro disposti ad assumere al buio. Inoltre, prima di quest’anno, l’ultimo decreto risaliva al 2011: dal punto di vista formale, è come se l’Italia non avesse bisogno di lavoratori stranieri".
La cronaca però racconta una realtà diversa. Hanno fatto notizia i disperati appelli lanciati da Coldiretti nel 2020, durante il primo lockdown per Covid-19, quando le campagne erano pronte alla raccolta ma per la mancanza di circa 200mila braccianti il 40 per cento di frutta e verdura rischiava di "marcire nei campi". Una delle paure su cui fa leva la retorica del "non possiamo accoglierli tutti" è la possibilità che i migranti sottraggano opportunità agli italiani. I dati dell’ultimo Dossier statistico sull’immigrazione pubblicato nel 2021 mostrano che si tratta di un timore infondato: il 65 per cento di lavoratori stranieri si occupa di prestazioni non qualificate, soprattutto nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia, dell’assistenza domestica, e del turismo. Tra gli italiani, la quota di chi ricopre la stessa posizione scende al 30 per cento. "Non c’è alcuna competizione – continua Demaio –. Da sempre i migranti colmano dei vuoti: impieghi a cui noi non ambiamo, con salari e condizioni svantaggiose. Senza di loro, interi servizi essenziali, come il supporto degli anziani, verrebbero meno. Negli ultimi anni è stata importante anche la spinta imprenditoriale. Il risultato è che grazie agli stranieri nel 2019 la nostra economia ha guadagnato 29 miliardi di euro, spendendone 25 per la loro gestione: un saldo positivo di quattro miliardi".
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Nel saggio Aiutateci a casa nostra (Editori Laterza, 2019) Nicola Daniele Coniglio, professore di politica economica dell’Università degli studi di Bari, riporta che "la possibilità di migrare liberamente porterebbe a un rilevante aumento dell’efficienza nell’allocazione delle risorse e in particolare della produttività dei lavoratori. L’aumento del Pil globale sarebbe, secondo lo studio più recente sul tema, intorno all’11,5-12,5 per cento […]. Alcuni economisti hanno paragonato gli effetti della liberalizzazione dei movimenti di lavoratori tra confini a un “miliardo di miliardi di dollari sul marciapiede che aspetta di essere raccolto”". Eppure, Coniglio considera la visione di chi sogna un mondo del tutto senza barriere un’ipocrisia perché non tiene conto dell’esistenza di limiti di natura sociale alla capacità di uno Stato di assorbire flussi migratori incontrollati: "L’immigrazione modifica inevitabilmente l’identità collettiva – scrive –. Una migrazione limitata e controllata modifica l’identità in modo graduale. Un’immigrazione elevata e incontrollata può invece avere come effetto quello di frammentare le identità, creare forti contrasti tra gruppi identitari differenti, enfatizzare l’esistenza di noi e loro e, di conseguenza, minare il patto sociale su cui si regge una società funzionante".
Aisha ha finte ciglia lunghissime colorate di viola e il braccio destro punteggiato da cicatrici che forse non esistevano quando ha lasciato Delta, la metropoli nigeriana in cui viveva fino a sette anni fa. Aveva vent’anni, quando una donna le ha promesso un posto da parrucchiera a Torino: era l’unica via per arrivare sin qui e Aisha ha accettato, ma il lavoro era un’esca. Una volta in Italia, la madame l’ha costretta a prostituirsi: solo dopo aver pagato 30mila euro, sarebbe stata libera. Gli anni su strada li racconta in modo sbrigativo e d’altra parte non c’è molto da dire: "Con i clienti si faceva quel che c’era da fare, alcuni erano persino gentili, altri avevano richieste strane, altri ancora scappavano senza pagare. Ma le volte in cui mi sono sentita più umiliata sono state quelle in cui la polizia mi ha fermata e portata nuda in questura". Se le si chiede perché ha deciso di lasciare la propria città, i propri genitori e amici, Aisha risponde: "Speravo solo di migliorare la mia vita".
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