10 maggio 2023
Arrivavano dalla stessa regione, il Kurdistan iracheno, in uno Stato a lungo segnato dai conflitti e dalle persecuzioni. Entrambi volevano raggiungere il Regno Unito, dove trovare condizioni di vita migliori. Hanno condiviso la stessa fine: il naufragio nel canale della Manica avvenuto il 24 novembre 2021, a quasi 30 chilometri dalla meta. Muslim Ismael Hamad e Zanyar Mustafa Mina sono due delle 27 vittime della tragedia più grave mai avvenuta tra Francia e Gran Bretagna. Sono anche due delle migliaia di curdi-iracheni che negli ultimi anni hanno lasciato la loro regione per cercare fortuna nel Vecchio continente. Dal giorno della loro scomparsa le famiglie di Muslim, Zanyar e altre vittime cercano giustizia, denunciando sia i trafficanti, sia l’inerzia delle autorità europee.
A circa un anno dal naufragio, il 25 novembre 2022 a Soran, città a cento chilometri da Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, Ismael racconta la storia di suo figlio, Muslim Ismael Hamad, 19enne appassionato di calcio e musica curda, partito perché “voleva andare a vivere dove ci sono più libertà e tutele per i diritti umani”. Il giovane aveva raggiunto l’Europa, ma mirava al Regno Unito: “Gli piaceva, semplicemente. Sapete, lo stile di vita”. Per farlo, ha approfittato dell’occasione che si era creata quando dall’agosto 2021 Alexander Lukashenko, presidente filorusso della Bielorussia, aveva aperto le sue porte ai migranti per poi lasciarli transitare verso la Polonia e destabilizzare l’Unione europea (leggi gli articoli). Muslim aveva preso un volo da Erbil per la capitale bielorussa, Minsk, e da lì aveva attraversato Polonia e Germania per arrivare in Francia. Un viaggio da 17mila dollari: per ottenerli, il padre ha venduto una delle case di famiglia.
Nel novembre 2021, Muslim si trova sul litorale di Dunkerque, città portuale della Francia che si affaccia sulla Manica. Qui incontra molte altre persone che, come lui, avevano il desiderio di costruirsi una vita nuova al di là del canale, così come hanno fatto 83.236 persone (tra cui 12.766 di nazionalità irachena) tra il 2018 e il 2022, stando a recenti statistiche del governo inglese.
Tra queste persone c’è un giovane arrivato da Zurkan, nella zona ovest del Kurdistan iracheno. Si chiamava Zanyar Mustafa Mina. “Pensava che studiare fosse inutile perché molte persone laureate non trovano un lavoro, così aveva deciso di fare qualcosa perché non poteva sposarsi, comprarsi una casa e avere un futuro – racconta il padre, Mustafa –. Voleva andare nel Regno Unito, fare il barbiere, imparare l’inglese e forse studiare”.
Viaggio nell'Europa dei muri che teme le migrazioni
L’uomo è peshmerga, un militare curdo, e come molti altri lavoratori delle amministrazioni pubbliche ha vissuto sulla sua pelle la crisi economica cominciata nel 2014, con l’espansione dello Stato islamico nel Medio Oriente: “Prima dell’Isis l’economia andava bene, c’era da lavorare qui, potevi fare soldi e comprare dei terreni. Dopo l’Isis, l’economia è peggiorata, il valore delle proprietà è sceso e gli stipendi di noi statali sono diminuiti e attualmente arrivano ogni due o tre mesi. Avevo terre, un’automobile e un casa e ho venduto tutto per i viaggi dei miei figli”.
Negli ultimi anni alcune migliaia di persone hanno lasciato il Kurdistan iracheno. Abdulla Hawez, ricercatore e giornalista originario di Erbil, ha scritto che l’ondata migratoria odierna dal Kurdistan iracheno è più alta di quella degli anni Novanta del secolo scorso, quando nella regione era in corso una guerra civile tra le fazioni legate al Unione patriottica del Kurdistan (Puk) e il Partito democratico del Kurdistan (Kdp). Difficile trovare numeri precisi sulle partenze. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), soltanto tra il marzo e l’agosto 2022 sono partite 8.349 persone. “Dal 2020 al 2021, circa 28.500 persone sono emigrate dal Kurdistan, di queste 15mila dall’area di Ranya”, sostiene Bakir Ali, fondatore dell’Associazione dei migranti di ritorno dall'Europa al Kurdistan, il cui obiettivo è facilitare il rientro di chi ha lasciato la regione. L’associazione stima siano quasi 250 le vittime originarie della zona.
Moltissime sono le ragioni per cui i curdi iracheni emigrano. Qui non arriva la ricchezza legata all’estrazione del petrolio, su cui si basa l’amministrazione statale: “Quando raggiungi una certa età vuoi un lavoro per farti una vita, comprarti una casa, sposarti, ma qui non c’è niente”, continua Ali. Secondo gli uffici iracheni dell’Oim, “per gli iracheni le principali ragioni per trasferirsi all’estero sono il lavoro (58 per cento), il ricongiungimento familiare (52 per cento), guerra, conflitti e persecuzioni (20) e l’educazione (8 per cento)”. Ci sono poi problemi legati alla sicurezza e alla stabilità, con la Turchia che bombarda i combattenti del Pkk (Partito curdo dei lavoratori, ritenuto un’organizzazione terroristica dallo Stato turco e dall’Ue) nascosti sui monti e l’Iran che cerca di colpire i dissidenti rifugiati nella regione. Hawez annovera tra le tante ragioni anche una di tipo politico: “La regione è abbastanza ricca e c’è molto denaro, ma è monopolizzato da una élite molto piccola, quindi non c’è una distribuzione equa”, spiega. Il potere è nelle mani di uomini di due famiglie, i Barzani e i Talabani, rispettivamente a capo del Puk e del Kdp, i partiti in guerra negli anni Novanta. Tra le cause, inoltre, l’esperto ricorda anche una certa capacità dei curdi nel varcare le frontiere (d’altronde sono un popolo che vive a cavallo di quattro Stati) e una sorta di effetto emulazione tra i giovani: “Vedono tutti i loro amici partire e questo è forse l’unico sentiero da percorrere”.
Tra i 210 potenziali migranti intervistati sul terreno dall’Oim tra il marzo e l’agosto 2022 la maggior parte (65 per cento) si diceva fiduciosa del fatto che non avrebbero corso rischi durante i viaggi. Il 15 per cento non era a conoscenza dei potenziali rischi mentre il 19 per cento lo era. Sempre secondo i dati raccolti dall’Oim, dal 2014 26.689 migranti sono morti nel Mediterraneo (di questi, 2.280 nelle rotte orientali dalla Turchia) e mille sono deceduti nel continente europeo (di cui 209 affogati nella Manica).
Zanyar aveva provato due volte a migrare. La prima, nel 2019, non era andata bene: “Era andato in Turchia, poi verso la Bulgaria. Qui è stato arrestato, picchiato e derubato dalla polizia. Una donna lo ha aiutato con cibo, vestiti e qualche soldo per tornare verso Istanbul e poi a casa”, ricorda il padre. Ci ha riprovato nel 2021: il 21 settembre, con un visto turistico e un volo per la Turchia. Passati quattro giorni, dalle coste anatoliche si è imbarcato con altre cento persone. Al largo della Calabria, il 29 settembre la Guardia costiera ha soccorso la barca portandola verso Crotone, dove i migranti hanno dovuto passare quasi due settimane in quarantena. Poi Zanyar ha risalito l’Italia verso Milano e da qui è partito verso la Francia, destinazione Dunkerque, dove ha ritrovato due amici. “È rimasto in attesa per quasi 38, 39 giorni. Era difficile partire. È stato sfortunato. Ha provato ad andare con alcuni gruppi, ma quei viaggi sono stati cancellati”, ricorda il padre, che aveva dato a un hawaladar (leggi l’inchiesta che racconta il sistema dell’hawala) quasi 11mila euro alla partenza e ne ha pagati altri 2.500 circa per la traversata della Manica.
“I problemi di Muslim sono cominciati in Francia – racconta Ismael –. Il trafficante, un curdo iracheno, gli ha detto che stava preparando un gommone per venti persone, ma ne ha fatte salire a bordo quaranta”. Spesso a pressare i migranti alla partenza sono i controlli vessatori delle forze di polizia francesi, denunciati da alcune organizzazioni umanitarie come Human Rights Watch. Gli agenti distruggono gli alloggi di fortuna per evitare che si creino grandi accampamenti come quello chiamato “Jungle” distrutto nel 2016, e così facendo spingono molte persone nelle mani di passeur con pochi scrupoli, in grado di riempire le imbarcazioni oltre la capacità consentita e poi farle viaggiare in cattive condizioni meteo.
La sera del 23 novembre 2021, Muslim e Zanyar, insieme ad altri 28 persone, hanno preso il largo, ma sulla rotta verso l’Inghilterra i passeggeri hanno avuto un problema. “Hanno chiamato un trafficante dicendo che sarebbero tornati indietro perché c’era un buco nel gommone e lui ha risposto che se lo avessero fatto gli avrebbe uccisi personalmente”, racconta il padre di Muslim. Allora hanno chiamato i soccorsi, che però non sono intervenuti. Le richieste di aiuto sono state trascurate dal Centre régional opérationnel de surveillance et de sauvetage (Cross) di Gris-Nez, ha rivelato il quotidiano francese Le Monde. Sono morte così 27 persone. I corpi di quattro di loro, tra cui quello di Zanyar, non sono mai stati ritrovati. Soltanto due sono i sopravvissuti.
Morti nel Mediterraneo, attesi a casa
"L’aver presentato questa denuncia ha permesso di non dimenticare di indagare anche sulle presunte responsabilità dei soccorsi”Emmanuel Daoud - Avvocato francese di quattro famiglie e dell'associazione Utopia 56
In Francia, la procura di Parigi ha aperto un’inchiesta per tratta di esseri umani. L’indagine sembrava concentrarsi soltanto su questo aspetto: “Il discorso politico del ministro dell’Interno Gerard Darmanin e del ministro della giustizia Eric Pont-Moretti era tutto incentrato sui trafficanti. Noi abbiamo voluto che l’inchiesta riguardasse i mancati soccorsi delle autorità francesi”, spiega l’avvocato Emmanuel Daoud, che ha presentato un esposto per conto di quattro famiglie delle vittime e dell’organizzazione francese Utopia 56, impegnata nell’assistenza e nel soccorso ai migranti sul litorale settentrionale francese. Nella loro denuncia si chiede di indagare il prefetto marittimo (funzionario del governo a capo di un’area marittima) della Manica e del mare del Nord, il direttore del Cross di Griz-Nez e la direttrice dei soccorsi britannici per omicidio involontario e omissione di soccorso. “Il pomeriggio del giorno in cui abbiamo depositato l’esposto, la procura ha diramato un comunicato per affermare che l’indagine ruotava intorno diverse ipotesi di reato, tra cui anche l’omicidio involontario. L’aver presentato questa denuncia ha permesso di non dimenticare di indagare anche sulle presunte responsabilità dei soccorsi”, aggiunge Daoud. Inoltre il 13 febbraio 2023 , tre famiglie delle vittime, insieme a Utopia 56 e all’associazione di difesa dei diritti umani, la Ligue des Droits de l’Homme, hanno inoltrato una richiesta di risarcimento al governo francese e ad altre autorità. “Non abbiamo avuto nessuna risposta. Adesso faremo ricorso al tribunale amministrativo di Parigi”, annuncia Daoud.
Anche in Inghilterra qualcosa si sta muovendo, ma con lentezza. Uno studio di avvocati sta fornendo assistenza ad altre famiglie e chiedendo l’apertura di un’indagine. Il Marine accident incident branch, settore del ministero dei Trasporti, ha avviato un’indagine sui mancati soccorsi. A distanza di un anno e mezzo, non ha portato a molto.
Alla fine del giugno 2022 dieci passeur sono stati arrestati in Francia. Un presunto trafficante è stato fermato il 28 novembre 2022 dalla National crime agency (Nca) in Inghilterra e un altro ancora a Ranya, dov’era tornato a nascondersi dopo cinque mesi passati in Francia. “Siccome qui siamo come una società con legami tribali, la gente parla. Abbiamo saputo che era tornato”, spiega il padre di Zanyar, la cui famiglia ha denunciato alla polizia l’uomo. Ismael, padre di Muslim, punta il dito contro un altro presunto responsabile della morte del figlio. Si tratta di un 33enne che nel 2014, ospite del Centro di accoglienza dei richiedenti asilo (Cara) a Bari, aveva presentato una richiesta di asilo. Sarebbe lui, sostiene Ismael, l’uomo che ha messo il figlio Muslim sul gommone. Da quanto è possibile apprendere da fonti a conoscenza degli atti dell’inchiesta francese, l’uomo non risulta tra gli arrestati.
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“Mentre affondavano, avevano chiamato i soccorsi in Inghilterra e in Francia, ma non sono intervenuti. Dove sono i diritti umani?"Ismael - Padre di Muslim, vittima del naufragio
“I familiari vogliono verità, vogliono sapere cosa è successo ai loro figli, fratelli, nipoti e come abbiano potuto morire così”, dichiara l’avvocato Daoud. Una sete di giustizia che dall’Iraq fa fatica a farsi sentire: “Voglio che la mia voce venga ascoltata in Francia e in Italia, dal presidente Emmanuel Macron e da quello italiano”, si sfoga Ismael, il papà di Muslim. Si interroga e interroga tutti: “Mentre affondavano, avevano chiamato i soccorsi in Inghilterra e in Francia, ma non sono intervenuti. Dove sono i diritti umani? – dice –. Nelle nostre zone sappiamo che i diritti umani non sono completi come in Europa, ma questo caso dimostra che neanché lì funzionano. Avrebbero dovuto fermare i trafficanti, rispondere agli sos”.
“Io do la colpa all’Iraq, alla Regione del Kurdistan iracheno e ai consolati europei a Erbil – dice Bakir Ali –. Volevamo parlare della questione con tutti i consolati, ma l’unico che ci ha dato ascolto è quello francese. Abbiamo anche mandato una richiesta e un invito ai diplomatici italiani. Alcuni ragazzi, una volta andati e aver visto com’è la vita in Europa, tornano. Per questo chiediamo che ottenere dei permessi di soggiorno sia più facile, perché se così fosse, molti di loro dopo aver visto la situazione in Europa, tornerebbero a casa”.
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