Una famiglia siriana aspetta di attraversare il confine ungherese (2015). Foto di Valerio Muscella
Una famiglia siriana aspetta di attraversare il confine ungherese (2015). Foto di Valerio Muscella

Uno, nessuno, centomila trafficanti

La rappresentazione iper-mediatizzata dell'immigrazione irregolare ha semplificato all'estremo un fenomeno complesso. Lungo le rotte si incontrano trafficanti, ma anche persone ordinarie, disposte a tutto pur di sostenersi

Gabriella Sanchez

Gabriella SanchezRicercatrice dello European University Institute

28 luglio 2020

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Per molti europei parlare di traffico di migranti significa parlare di Libia: gli orrori dei centri di detenzione, la violenza delle milizie, i trafficanti senza scrupoli. Tutti conosciamo queste storie e negarne la crudezza sarebbe impossibile. Pensare, però, che questo corrisponda fedelmente alla realtà è altrettanto illusorio. La rappresentazione iper-mediatizzata dell’immigrazione irregolare ha semplificato all’estremo un fenomeno molto più complesso di quel che appare. Dalla Libia arriva un’unica narrativa: quella della sicurezza e della violenza. I migranti sono concepiti esclusivamente come attori passivi, mentre continuano a essere ignorate le loro interazioni, i contesti in cui la domanda di mobilità emerge e le dinamiche che la caratterizzano.

Com’è fatto un trafficante?

La prima volta che mi sono imbattuta in un trafficante frequentavo l’università. Ero riuscita a ottenere un permesso per lasciare il Messico e lavoravo per l’Alta corte dell’Arizona. Era il 2005 e nel Paese era appena stata approvata la cosiddetta legge del coyote per contrastare i trafficanti di migranti sul confine tra Messico e Stati Uniti (chiamati in gergo, appunto, coyote). L’unica esperienza che avevo era quella della mia famiglia, migrata prima di me attraverso quelle stesse vie illegali; non avevo altre esperienze professionali, ma parlavo spagnolo, così mi mandarono a intervistare i trafficanti che si trovavano in prigione in attesa di processo. 

Non ci volle molto per rendermi conto che i loro racconti cozzavano con la percezione della Corte: invece che parlare dei crimini legati ai loro viaggi, gli uomini e le donne che intervistavo raccontavano di obiettivi di vita, dei loro desideri e di come la migrazione irregolare fosse un modo per raggiungerli. C’erano madri single e anziani. Quasi tutti lavoravano per compiti specifici legati alla buona riuscita dei viaggi: servizi di trasporto e di alloggio, fornitura di pasti. Il loro unico comune obiettivo era quello di sostenere le proprie scarse entrate. Più che trafficanti, erano facilitatori dei viaggi dei migranti. Una differenza sottile, ma sostanziale, che sta proprio nelle motivazioni alla base delle loro azioni: queste persone, pur prendendo parte ad attività considerate illegali, non avevano alcuna intenzione criminale. 

Cominciai a leggere le ricerche accademiche in materia ma tutte proponevano un’unica visione: pericolosi trafficanti, ben organizzati in reti gerarchiche, che si arricchivano sulla pelle dei migranti. Dopo quattro anni di interviste su cui pubblicai la mia tesi di dottorato, decisi di proseguire le ricerche in Tunisia, Marocco, Israele e infine Australia. Paesi estremamente diversi tra loro, in cui riscontravo però ogni volta le medesime dinamiche: persone ordinarie, abbastanza povere da essere disposte a tutto pur di sostenersi economicamente, anche a fornire servizi illegali ai migranti irregolari. Spesso i cosiddetti trafficanti erano gli stessi migranti rimasti bloccati lungo il viaggio e in cerca di risorse per proseguire, ma non mancavano nemmeno pubblici ufficiali e agenti di frontiera mal pagati e insoddisfatti della propria condizione. 

I più scettici potrebbero dire che finora nelle mie ricerche ho trovato solo pesci piccoli. Io rispondo che in 16 anni penso di aver incontrato molti boss, il problema è che non sono come ce li immaginiamo. Le forme di leadership all’interno del traffico di esseri umani sono molteplici e per capire il fenomeno è necessario riconoscerne le differenze. 

"Nei villaggi sul confine tutto viene contrabbandato: persone, armi, droghe, carburante. Ma le famiglie i cui figli vengono uccisi mentre trafficano droga non rivendicano nemmeno i corpi: per loro è una vergogna. Questo non avviene per chi traffica persone"Lavoratore locale al confine tra Tunisia e Libia

Il caso libico

Quando tre anni fa arrivai in Europa, ritrovai la stessa narrativa anche per il caso libico: potenti tribù e violente milizie che costruiscono imperi economici sul traffico di migranti. Le prime interviste le feci ai migranti arrivati in Italia via mare e scoprii che spesso si trattava di persone giunte in Libia per lavorare, senza alcuna intenzione di raggiungere l’Europa. I miei colleghi erano scettici: "Tutti odiano la Libia, non si può affermare che qualcuno voglia restarci", mi ripetevano. Mi recai quindi in Tunisia, al confine con la Libia – un serio problema per la comprensione del fenomeno rimane l’inaccessibilità del Paese per i ricercatori – per intervistare migranti, abitanti, lavoratori del luogo, facilitatori dei viaggi. Di nuovo, i discorsi pubblici cozzavano con la realtà.

Tanto per cominciare, mentre l’Europa è ossessionata dall’Africa subsahariana, in Libia convivono le nazionalità più diverse, con persone provenienti anche da Bangladesh, Pakistan e Afghanistan. Molti migranti descrivono le condizioni in Libia come precarie, ma migliori di quelle nei loro Paesi di origine. Il lavoro nei mercati informali non manca; i salari sono bassi, ma il cambio di valuta permette di inviare parte dei guadagni a casa. I cosiddetti trafficanti non subiscono alcuna forma di stigma sociale, perché il loro lavoro è percepito come una qualsiasi strategia per far fronte alla precarietà della vita nel Paese. Anzi, la facilitazione dell’immigrazione è considerata un elemento di stabilità economica e sociale per le comunità locali. Spesso i facilitatori sono obbligati a pagare commissioni a gruppi criminali e forze dell’ordine, per i quali corruzione e razzismo nei confronti dei migranti subsahariani sono pratiche abituali.

“Ero riuscito a trovare lavoro come cameriere ed ero davvero felice. Un giorno il ristorante fu distrutto dai bombardamenti. Il mio capo disse che sarebbe partito per l’Italia, proponendomi di andare con lui. Dissi di no”Migrante

Una definizione fuorviante

Parte del problema nel capire cosa succede in posti come la Libia sta nella definizione utilizzata per parlare delle esperienze vissute dai migranti. Il Protocollo contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, mare e aria, approvato nel 2000 dalle Nazioni Unite, ha per primo definito il traffico di migranti come un crimine. Il Protocollo si riferisce al processo di facilitazione dell’ingresso illegale di una persona in un Paese straniero a fronte di un pagamento. È importante sottolineare che il traffico di migranti è una pratica diversa dalla tratta di esseri umani, che consiste nel reclutamento, trasporto, trasferimento e ricevimento di persone attraverso la forza o altre forme di coercizione al fine di un loro sfruttamento.

I problemi legati a questa definizione sono due. Innanzitutto, l’esperienza dei migranti irregolari, che spesso si trovano a sperimentare sia forme di traffico sia di tratta, non è propriamente definita da nessuno dei due termini. Secondo, il Protocollo non è stato una risposta contro la violazione dei diritti dei migranti, bensì un tentativo dei Paesi del Nord globale di arginare la crescita dell’immigrazione irregolare di popolazioni indesiderate. Per ottenere maggiore credito, la definizione si basa sul concetto di crimine organizzato. Tuttavia, le ricerche sul campo condotte da un numero sempre maggiore di ricercatori dimostrano che le reti dei cosiddetti trafficanti sono fluide, non gerarchiche ma orizzontali e prevedono la partecipazione degli stessi migranti o di amici e familiari che agiscono per agevolare il viaggio dei loro amati. In aggiunta, quando sentiamo parlare di traffico di migranti, i casi narrati sono spesso solo quelli più drammatici, con morti e forme estreme di violenza. Le immagini utilizzate dai media non mirano tanto a comprendere le reali motivazioni e i contesti in cui si sviluppano le migrazioni irregolari, quanto a dipingere il fenomeno – e con esso i migranti – come una minaccia.

L’inutilità di un approccio securitario

Quel poco che sappiamo delle migrazioni irregolari in Libia è schiacciato da una prospettiva imperialistica e coloniale: ci sono pochi ricercatori, per la maggior parte uomini europei, che adottano la stessa lente securitaria delle istituzioni che li finanziano. Non a caso, sebbene chiunque conosca la storia della Libia sa che da generazioni le tribù contribuiscono a pratiche di facilitazione della mobilità nel Sahara e che da decenni le milizie giocano un ruolo chiave nel controllo delle migrazioni verso l’Europa, queste sono divenute parte del discorso pubblico sulle migrazioni irregolari dalla Libia solo in seguito alla caduta del regime di Muammar Gheddafi.

La verità è che l’idea che dietro i viaggi dei migranti vi siano persone povere e marginalizzate che fanno del loro meglio per sopravvivere non permette di ottenere gli stessi finanziamenti garantiti invece dall’ipotesi di pericolosi gruppi di trafficanti organizzati. Come se non bastasse, nonostante l’enorme quantità di fondi spesi per combattere le migrazioni irregolari, continuiamo ad assistere a tragiche morti ed episodi di estrema sofferenza. Ciò che non si vuole vedere è che tra le principali cause di morte per i migranti non ci sono solo gli abusi subiti da autorità, criminali, residenti locali e persino altri migranti, ma i rischi che questi devono affrontare quando, a causa dei controlli e del rafforzamento delle frontiere, sono costretti a seguire rotte remote e pericolose con scarse possibilità di ricevere assistenza. Un circolo vizioso in cui politiche securitarie e rotte sempre più pericolose si alimentano a vicenda.

“Non volevo andarmene, ma continuavo a essere vittima di rapimenti in cambio di riscatto. Ho dovuto chiedere alla mia famiglia di pagare, ma eravamo ancora in debito con il broker per il mio viaggio. Alla fine ho lasciato la Libia perché non potevo più permettermi di essere rapito” Migrante

La pandemia da coronavirus non ha fermato né i viaggi, né tantomeno la conta dei morti. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, 194 Paesi hanno introdotto restrizioni alla libertà di movimento: se in molti casi si è trattato di una risposta all’emergenza, in altri le limitazioni sono state accompagnate da (o addirittura usate come) misure di contenimento delle migrazioni. È il caso del governo italiano che il 7 aprile ha dichiarato i propri porti insicuri per lo sbarco delle persone salvate in mare da navi battenti bandiera straniera. La dichiarazione è coincisa con l’annuncio della presenza di almeno dieci imbarcazioni libiche in avvicinamento alle acque territoriali nazionali.

Come dimostrato dalle evidenze empiriche, invece di fermare la mobilità, i controlli sulle migrazioni spingono coloro che stanno dietro questi viaggi ad adottare strategie più precarie e violente. Il traffico di migranti non arriva dal nulla. Se continua è perché le motivazioni che spingono i migranti a partire illegalmente – come la mancanza di vie di accesso regolamentate e le precarie condizioni di vita nei Paesi di origine – rimangono attuali e ignorate dai governi del Nord globale.

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