Libia, i lager dell'orrore che l'Europa non vuole vedere

Violenze, torture, malattie: le organizzazioni internazionali hanno ripetutamente denunciato gli abusi nei centri di detenzione libici, conosciuti come lager libici. Ma l'orrore rimane inascoltato

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

Aggiornato il giorno 1 giugno 2023

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Una donna appesa a testa in giù che urla mentre viene bastonata, un uomo incatenato con una pistola puntata alla tempia e poi vermi tra le coperte, cumuli di rifiuti, latrine strabordanti. Sono immagini dell’orrore quelle scattate dai migranti prigionieri nei centri di detenzione, ufficiali e non ufficiali, della Libia. Se un inferno esiste, è qui ed è ora. Un inferno documentato, più volte denunciato dalle organizzazioni internazionali e dai media, ma puntualmente ignorato dalle istituzioni europee, tra cui l’Italia. Proprio ieri il nostro governo ha inviato una proposta per rivedere il memorandum stipulato con la Libia nel 2017.

Un accordo che fino ad ora ha sancito una stretta collaborazione con la guardia costiera di Tripoli, di cui il governo italiano finanzia uomini e mezzi: soldi usati per recuperare i migranti nel Mediterraneo e riportarli indietro, nei centri di detenzione, dove spesso bambini, donne e uomini vengono torturati, stuprati e uccisi. Violazioni dei diritti umani documentate anche dalle Nazioni unite. 

Il testo, si legge nel comunicato diffuso dal ministero degli Esteri, "introduce significative innovazioni per garantire più estese tutele ai migranti, ai richiedenti asilo e in particolare alle persone vulnerabili vittime dei traffici irregolari", ma non è stato reso pubblico.

L'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), espressamente menzionato nella nota della Farnesina in quanto dovrebbe aiutare l'Italia a raggiungere gli obiettivi, fa sapere a lavialibera di non essere a conoscenza del contenuto della proposta e di non essere stato interpellato. Critiche le Ong, che vorrebbero la cancellazione totale dell'accordo. "La revisione degli accordi Italia-Libia è ipocrita e serve solo a lavarsi la coscienza, l'accordo della vergogna va stracciato", ha dichiarato Alessandra Sciurba, portavoce di Mediterranea Saving Humans. 


Torture ed esecuzioni sommarie: l’inferno dei rifugiati in Libia

L’ultimo a puntare i riflettori sugli abusi è stato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che il 15 gennaio ha pubblicato un rapporto in cui denuncia le “gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario” commesse “in tutta la Libia nella totale impunità”. “Migranti e rifugiati hanno continuato a essere sistematicamente sottoposti a detenzione arbitraria e tortura in luoghi di detenzione ufficiali e non ufficiali”, si legge nel documento. I rapimenti sono all’ordine del giorno e nei lager la vita è scandita da stupri, violenze e lavori forzati, le cui responsabilità vanno individuate in “funzionari governativi, membri di gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e bande di criminali”.

"Stupri, torture e lavori forzati, le cui responsabilità vanno individuate in funzionari governativi, gruppi armati e trafficanti"Antonio Guterres - segretario generale Onu

“Rifugiati e migranti in Libia dovrebbero essere rilasciati e dotati di un rifugio protetto fino a quando le loro richieste d’asilo non potranno essere valutate — prosegue Guterres —. La Libia non può essere considerata un porto sicuro di sbarco ed esorto gli stati membri a revisionare le loro politiche che supportano il ritorno (in Libia, ndr) di rifugiati e migranti”. 

I lager libici gestiti dai trafficanti 

Gli ultimi dati forniti a lavialibera dall’Unhcr stimano che al momento nel Paese siano operativi 11 centri di detenzione ufficiali (numero in costante mutamento), al cui interno si contano 2800 migranti. Una cifra che però non tiene conto delle decine di campi gestiti dai trafficanti, collocati soprattutto nella Libia meridionale, dove “la maggior parte delle persone arriva dal Corno d’Africa, cioè da Sudan, Somalia ed Eritrea”, spiega Giulia Tranchina, avvocato di base a Londra che da anni è in contatto con chi quei lager li vive e da cui riceve foto e aggiornamenti quotidiani. Una volta raggiunto il sud della Libia, spesso a bordo di camion, finisce nelle mani dei trafficanti con cui trascorre almeno un anno. Un anno di sevizie.

"Ogni giorno chiamavo la mia famiglia, mi torturavano e mi seviziavano in maniera tale da far sentire le mie urla strazianti"un sopravvissuto

Da Bani Walid, centro di detenzione informale a ovest di Misurata, arriva il video della donna bastonata, una giovane eritrea. Da Sabha, una fortezza nel deserto soprannominata “il ghetto di Alì”, le immagini di decine di uomini stipati in una minuscola stanza. Pochi frammenti, ma quanto basta per avere contezza dell’orrore dei lager. Anche se nessuno conosce con precisione cosa avvenga, dato che le organizzazioni internazionali non possono accedere al loro interno. Prassi comune, riferita da molti testimoni, sono le torture in diretta telefonica con i familiari delle vittime a cui viene chiesto il pagamento di un riscatto. “Ogni giorno chiamavo la mia famiglia e mentre avanzavano le richieste di denaro mi torturavano e seviziavano in maniera tale da far sentire le mie urla strazianti”, ha raccontato un sopravvissuto sbarcato a Lampedusa e ascoltato dagli investigatori di Agrigento. In cambio dei soldi viene promessa la libertà, il biglietto per l’Europa. Ma molte volte, dopo il pagamento, i migranti vengono di fatto consegnati alla polizia. 

Gli abusi nei centri di detenzione ufficiali

Il girone successivo sono i centri di detenzione ufficiali gestiti dalle autorità, "in cui — precisa Tranchina — sono tutti migranti che hanno diritto alla protezione internazionale. Gente disperata, perseguitata e torturata nel proprio paese di provenienza: non ha altra scelta che scappare”. Qui le condizioni non sono migliori come documentato anche dalle organizzazioni internazionali.

In un report pubblicato la scorsa primavera, Medici senza frontiere (Msf) ha denunciato che nel centro di detenzione di Sabaa (Tripoli) controllato da una divisione del ministero dell’Interno libico — dove all’epoca erano detenuti “arbitrariamente” 300 migranti di cui 100 minori di 18 anni —, una persona su quattro era sottopeso o malnutrita, con i bambini e gli adolescenti che avevano più probabilità degli adulti di essere “gravemente malnutriti”. Una situazione che Kees Keus, consulente sanitario di Msf in Libia, definì estremamente preoccupante dato che “all’interno dei confini della detenzione le persone non hanno alcun controllo su cosa mangeranno, nonché su come e quando mangeranno. Sono completamente dipendenti dalle autorità. I nostri medici hanno visitato i pazienti che hanno smesso di prendere medicine perché non avevano niente da mangiare”. 

Alla malnutrizione si affianca l’assenza di cure. L’igiene è inesistente, manca l’acqua potabile e i bagni scarseggiano: lacune che sono all’origine di molte malattie, come infezioni respiratorie, diarrea, scabbia e tubercolosi. Proprio per malattia e assenza di cure agli inizi di gennaio è morto a Sabaa un ragazzo di 16 anni, Adal Debretsion, un eritreo imprigionato da oltre un anno. Mentre a Zintan, 170 chilometri a sud-est di Tripoli, si contano 23 decessi da settembre 2018 a oggi. Altra situazione preoccupante è quella di Tariq al-Sikkah (Tripoli), gestito dalla polizia che fa capo al governo libico, dove al momento — secondo le fonti di Tranchina — diversi migranti sarebbero rinchiusi da giorni in una stanza delle torture sotterranea. Non mancano poi le esecuzioni sommarie e le incursioni di gruppi armati, come accaduto nell’aprile del 2019 a Qasr bin Ghashir, centro di detenzione ufficiale vicino Tripoli, adesso chiuso. In un video si vedono le ferite d’arma da fuoco riportate da alcuni migranti dopo l’irruzione di una banda che ha sparato sulla folla.

Gli attacchi sono solo una delle conseguenze del conflitto in corso in Libia, in cui si fronteggiano l’esercito del maresciallo Khalifa Haftar, che controlla quasi tutta la Libia orientale, e il governo di Fayez al-Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale, con sede a Tripoli. Una menzione a parte la meritano le donne, vittime di ripetute violenze sessuali: su 16 campi di detenzione ufficiali, solo uno impiega personale femminile, sottolinea l’Onu. 

Gli appelli delle organizzazioni internazionali

Condizioni che non sono migliorabili, denunciano tutte le organizzazioni internazionali che lavorano in Libia. “I centri vanno chiusi — ribadisce a lavialiberaCarlotta Sami, portavoce dell’Unhcr —. Le condizioni al loro interno sono orribili e insopportabili. Ma è bene ribadire che rifugiati e richiedenti asilo presenti nel Paese, al momento circa 45mila, rischiano anche al di fuori dei centri di detenzione. In Libia è in corso una crisi dei diritti umani, non è un luogo d’asilo. Chiediamo ai governi europei di pretendere dal governo libico dei cambiamenti istituzionali e che gli autori delle violenze siano portati di fronte alla giustizia”.

"I centri vanno chiusi. Le condizioni al loro interno sono orribili e insopportabili"Carlotta Sami - portavoce Unhcr

Dal canto suo, il 30 gennaio scorso l’agenzia Onu per i rifugiati ha annunciato la sospensione delle proprie attività nel centro di raccolta e partenza di Tripoli, dove nelle ultime settimane hanno trovato rifugio 1700 persone. “Troppo rischioso, non abbiamo altra scelta”, è la motivazione ufficiale. Un abbandono che è stato accolto con preoccupazione da Medici senza frontiere. Michael Fark, capomissione Msf in Libia, attacca: “Rifugiati e migranti intrappolati in Libia sono stati abbandonati in un paese non solo in guerra, ma nel quale sono anche estremamente vulnerabili al traffico di esseri umani, alle violenze e ai lavori forzati”. “Invece che mettere fine a questi abusi, l’Europa sta aiutando la Libia a proseguire le violazioni”, scrive Amnesty International nell’appello lanciato per fermare la tortura e la detenzione dei rifugiati. Parole, fino ad ora, cadute nel vuoto.

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